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Costi e benefici: la storia insegna
E dunque ospiteremo la sorella piccola dei Giochi olimpici e sarà un’occasione di guadagno, tutta la classe politica dice così. Ma guadagno per chi? In altri termini c’è un guadagno collettivo (inteso come benessere e vantaggi generalmente diffusi, ritorno economico, ad esempio grazie al miglioramento dei trasporti o all’aumento del turismo e degli investimenti) o c’è guadagno solo per gli investimenti privatigenerando profitti per il comitato organizzatore che ne paga la spesa? Il comitato organizzatore, infatti, non si fa carico dei Giochi perché crede nella spettacolarizzazione della pratica sportiva né per celebrare con ortodossia la dea Olimpia, ma sostanzialmente per soldi.
Il 24 giugno 2019, a Losanna, il Comitato Olimpico Internazionale ha “assegnato” i giochi invernali del 2026: abbiamo vinto noi, ha vinto la proposta del CONI, hanno vinto le città di Milano e Cortina. Il comitato organizzatore italiano ha sconfitto quello svedese aggiudicandosi per 47 voti contro 34 il mega evento. Le Olimpiadi invernali tornano in Italia dopo 20 anni da quelle di Torino e a Cortina dopo 70 da quelle del 1956. Il presidente della Repubblica Mattarella è tra i primi a esultare. Eppure mentre l'Italia esulta è praticamente sola. E come in ogni competizione agonistica, viene meno anche di esultare se i diretti avversari si ritirano; ancor più se lo fanno perfino col sorriso.
In un periodo surreale e senza precedenti come quello che stiamo vivendo in cui è praticamente impossibile parlare di calcio giocato, poche cose possono consentirci di mantenere in vita il rapporto tra le comunità di tifosi e quel patrimonio simbolico incarnato dalle squadre nel corso della loro esistenza.
Ieri ricorreva il novantacinquesimo anniversario della fondazione del Colo Colo, molto più di un club e non semplicemente la squadra più famosa e vincente del Cile ma, come lascia presagire il nome, un vero e proprio simbolo di rivalsa sociale per le classi subalterne cilene e per i nativi sudamericani, visto che come ha acclarato un sondaggio recente è la squadra che può contare sul maggior sostegno da parte degli immigrati nel paese andino (quasi la metà del totale, il 46%) e che si è trovato a scandire pagine cruciali della storia del proprio paese, sportiva e non, avendo potuto annoverare nelle proprie fila alcuni giocatori storici e passati alla storia anche per prese di posizione inequivocabili in questioni prettamente extracalcistiche, già a partire dalla nascita.
C’è da riconoscerlo: noi calciofili siamo oltranzisti e diffidenti per natura. In primis nei confronti di tutto ciò che si discosta da quella che decantiamo da sempre come la sacralità del football. Per di più se rivendichiamo il suo carattere popolare.
Il nostro fondamentalismo assurge a legge inconfutabile se abbiamo vissuto anche solo una parte della nostra vita a cavallo tra il cosiddetto “vecchio calcio” e l’avvento del “calcio moderno”. Se per quest’ultima locuzione intendiamo lo spartiacque temporale dei primi anni Novanta del secolo scorso, con l’affermazione dell’industria televisiva delle pay-tv e della “Sentenza Bosman”, sulla libera circolazione dei calciatori comunitari nei paesi della Comunità Europea. E il conseguente corollario di trasformazione definitiva del calcio in un’industria multimilionaria.