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Dudley, Black Country, West Midlands. I dintorni di Birmingham, per capirci. La terra d’origine di Anthony Cartwright, e la terra che sintetizza al meglio questi tre decenni abbondanti di neoliberismo trionfante, avviato dalla signora Thatcher e innalzato nel tempo a unico modello di sviluppo possibile, stando alla narrazione ufficiale, quella di regime, comune praticamente a tutti i Paesi di quello che, almeno un tempo, si definiva “Occidente sviluppato”. E quindi quello che era un distretto minerario e industriale brulicante di ciminiere fumanti e di torme di operai che si susseguono nei turni massacranti, ma quanto meno si riconoscono un ruolo nel mondo, diventa un territorio dismesso, depresso, in cui la cenere e la polvere non si alzano più verso il cielo ma si posano sul tessuto urbano e sulla pelle delle persone, a formare una coltre fredda e grigia, che non lascia presagire nulla di buono.
Sono sincero, nonostante mi interessi di sport a tutto tondo, nel mio intimo amo gli sport di cui capisco la complessa architettura di regole e sudore ancorché riesco a immaginarne i sacrifici e le rinunce di chi lo pratica, in sintesi, nel mio caso, calcio e ciclismo.
Però magari un giorno ti ritrovi tra le mani un gran bel libro sulle vite, le fatiche, le lotte di due afroamericani di cui avevi visto la foto appesa in posti che solitamente frequenti, una foto di per sé così evocativa e ribelle. I pugni al cielo di Tommy Smith e John Carlos.
Il libro però andò al di là della foto e delle storie di razzismo imperante negli USA e mi fece conoscere uno sport su cui raramente mi ero soffermato per conoscerlo e apprezzarlo. L’atletica leggera, o meglio, la velocità. In particolare i 200 metri piani.
La continua ricerca della perfezione, l’allenamento marziale, la dedizione completa all’obiettivo. La solitudine. Di certo diverso, diversissimo da quella immagine di sport di squadra che io adoro e prediligo. Eppure la lettura di quel libro mi aveva suggestionato, un punto di vista così elettrizzante mi aveva folgorato.
Il 31 Luglio intorno alle 11:00 squilla il telefono.
«Pronto».
«Salve, chiamo dalla Federazione, con chi parlo della Borgata Gordiani?».
Ecco il primo problema. Come spiegare a una delegata federale che non sta parlando con il presidente, con il direttore sportivo, o con il segretario? Tentiamo la strada della sincerità:
«Sono solo quello che ha fatto le pratiche per l’iscrizione lo scorso anno».
La perplessità dall’altro capo del telefono è tangibile ma, per fortuna, a chi chiama poco interessa degli strumenti organizzativi di cui ci siamo dotati, della nostra struttura societaria orizzontale e dei nostri meccanismi decisionali assembleari. Chi chiama ha un altro compito: riempire un posto vacante nella griglia del prossimo campionato di Seconda Categoria. Decide, pertanto, di tagliare corto scegliendo come noi la via della sincerità:
«Ah, ok, va bene. Vi volevo fare una proposta: vi interessa la Seconda Categoria?».
È vero, il Mondiale di calcio femminile francese è finito già da qualche settimana e le analisi tecniche sono state anche abbondanti, tante persone che prima snobbavano il calcio femminile hanno cominciato a ricredersi vedendo un percorso intrapreso che ha cominciato a portare i primi risultati. Naturalmente non ci riferiamo alle questioni da fatturato auspicate dalla FIFA, ma a dati magari passati in sordina che la dicono lunga su come stia crescendo l’intero movimento: ad esempio il fatto non proprio trascurabile che, se all’inizio della competizione su ventiquattro squadre solo otto erano allenate da donne, ai quarti di finale tra le otto superstiti ben cinque avevano una donna come ct.
Proprio per questo abbiamo pensato di parlarvi del profilo di quattro atlete che alle qualità sul rettangolo verde hanno abbinato quelle al di fuori dello sport.