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“Attraversiamo i nostri labirinti neri, ombre ammassate. I fuochi sono ormai tutti spenti. Noi siamo il fumo che segna il mattone. Siamo il ruggito di ferro che credevate d’aver messo a tacere. Cantiamo al metallo contorto e lungo tunnel allagati, sopra distese vuote d’acqua e campi di detriti. Cantiamo di giorni migliori”. Sono queste le parole con cui si apre Iron Towns. Città di ferro di Anthony Cartwright (66thand2nd, 2017, uscito in Gran Bretagna nel 2016). Un ritratto cupo e lirico di un distretto industriale in dismissione, di lande dove la nebbia crea un tutt’uno con la polvere e la cenere dei vecchi impianti industriali il cui rombo è ormai solo un lontano ricordo. Un distretto di fantasia ma crudamente reale. I luoghi nominati nel libro in realtà non esistono, ma sono ancorati alla realtà delle Midlands occidentali, non lontano dal confine gallese, dove ai profili delle colline si alternano le vallate ricoperte di cemento, ciminiere e alveari di operai ora perlopiù disoccupati. Anche la squadra di calcio, l’Iron Town Football Club, non esiste, ma la sua storia è quella di tante vere squadre di ogni angolo del mondo, legate in modo indissolubile ai destini altalenanti delle rispettive comunità.
Dopo il diluvio di successi della passata stagione, con ben undici promozioni tra le squadre di cui seguiamo il cammino, è normale che i cicli delle stagioni calcistiche riservino poi anche annate in cui bisogna stringere i denti, consolidare le posizioni, lavorare al passo successivo senza rischiare di farne subito uno indietro. Vista in quest’ottica, la stagione in corso sembra tutt’altro che negativa, sicuramente c’è chi ha incontrato campionati molto più duri di prima, ma sembrano anche delinearsi alcune possibili e belle soddisfazioni. La pausa natalizia, che segna – più o meno – la metà del percorso, offre un’ottima occasione per una bella panoramica fatta con un po’ di calma.
Il titolo è certamente d’impatto, cattura l’attenzione ma lascia mille punti di domanda. Il sottotitolo colpisce meno, sembra più scolastico, ma ha molta importanza: “frammenti di un discorso sul pallone”. Scorrendo qualche recensione qua e là, Uccidi Paul Breitner (Edizioni Alegre, collana Quinto Tipo, 2018) viene definito come un libro sul calcio come strumento di dominazione, sia ideologica che concreta ed economica, politica e militare, una delle armi più efficaci che il potere ha per consolidarsi, ramificarsi, espandersi, moltiplicare i profitti. Ma una lettura del genere è semplicistica fino quasi al rischio di equivocare il senso del libro. E qui viene in aiuto il sottotitolo: quelli che ci regala Pisapia sono per l’appunto frammenti di un discorso, spunti per la ricerca e la discussione, segnali di fumo molto chiari e potenti per chi ha voglia di coglierli e ricostruire un discorso antagonista in un’epoca dove vorrebbero farci credere nella fine delle ideologie, della contrapposizione tra classi, della possibilità di lottare. L’interpretazione secondo cui il libro parla del calcio come strumento di potere sembra alludere al fatto che quest’opera sia un ritratto statico del disastro, della sconfitta, della lucida disillusione, quando è in realtà tutto il contrario.
Gaza, oggigiorno, passa agli onori della cronaca come un territorio in cui avvengono violenze quotidiane. Da alcuni mesi oramai, durante quella che è conosciuta come “Grande Marcia del Ritorno”, non passa venerdì in cui non arrivino in Occidente notizie di morti tra i palestinesi. Per questa e per altre ragioni la Striscia può essere considerata una delle zone più dure del mondo sotto vari punti di vista. Proprio qui, infatti, lo stato di Israele mostra più chiaramente il suo lato guerrafondaio ed il suo ideale imperialista dilagante. Anche in una situazione del genere, però, non mancano le storie militanti da raccontare. Una di queste ci interessa in particolare visto che può rientrare a pieno titolo nell'ambito del cosiddetto sport popolare.