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Circa un anno fa sugli spalti dello stadio C. De Giovanangelo, oggi denominato da noi “Degenerovanangelo”, nascono i “RudeBwoy Pro-Cittiglio”. Un gruppo di giovani, soprattutto ragazzi che per la mancanza degli spazi d'aggregazione nell'omonimo paese decidono di seguire le partite di calcio domenicali. Quindi di riempire un vuoto con l'amore per lo sport e il tifo popolare. La Pro-Cittiglio è nata nel lontano 1952. I suoi colori sono il grigio e il blu, come le classiche giornate sul Lago Maggiore, alternate da coltri di nebbia e limpidi panorami. Non è mai stata una squadra capace di ottenere grossi risultati e vittorie, forse appunto per la mancanza di quella spinta in più di cui ha bisogno una squadra calcistica seria.
Nella notte tra il 16 e il 17 marzo 2003 Davide Cesare, da tutti conosciuto col soprannome di Dax, veniva ucciso da un gruppo di tre neofascisti, un padre e due figli: Federico, Mattia e Giorgio Morbi. Il fatto avvenne nel quartiere Ticinese di Milano, non lontano dal centro sociale autogestito O.R.So. (Officina di Resistenza Sociale).
Nessuna delle istituzioni volle, all'inizio, vedere il lato politico di questa aggressione che venne etichettata subito come una bravata tra ragazzi. Solo in un secondo momento, quando oramai era chiaro a tutti, i politici definirono l'accaduto come una vera e propria “aggressione di stampo politico”.
Nel corso di questi 15 anni Davide, come un po' tutte le vittime del neofascismo, è stato ricordato in vari modi: dalla musica all'arte. Nel caso dell'antifascista milanese, però, si è andati oltre ed è stata creata una squadra di calcio popolare chiamata, non a caso, “Brigata Dax FC”.
Fondata nel 2005, a due anni dalla morte di Dax, la Brigata, oggigiorno è uno dei team più conosciuti nel panorama del calcio popolare italiano, e non solo. Una squadra fondata su tre ideali ben precisi: antifascismo, antisessismo e antirazzismo, e che nelle sue file vede giocare giocatori di varie provenienze e culture.
Solitamente, prima di fare una recensione di un libro o di una rivista, faccio un piccolo schema in cui da un lato metto i pregi, i punti di forza e dall'altro i punti deboli.
Ecco, in questo specifico caso mi è stato quasi impossibile riempire il secondo campo, perché il nuovo numero di "Uno-due", dedicato all'identità e alla sua costruzione nel calcio, non solo scorre via in maniera leggera lungo tutti i suoi diciannove articoli (grazie anche alla più che piacevole veste grafica che accompagna il lettore), ma soprattutto riesce a stabilire quel connubio tra calcio e cultura, compito a cui anche la stragrande maggioranza del giornalismo di settore ha abdicato preferendo rifugiarsi in partigianerie di comodo a metà strada tra "il tifoso" e "l'amico del procuratore di turno".
Il mondo della militanza politica di sinistra ha da sempre interessato vari ambiti sportivi a livello mondiale. Uno di questi eventi, proprio in questo 2018, vedrà cadere il suo 50esimo anniversario.
Il 16 ottobre 1968, infatti, durante lo svolgimento della XIX edizione dei Giochi Olimpici a Città del Messico, due atleti afro-american, Tommie Smith e John Carlos, vinsero la medaglia d'oro e quella di bronzo nella finale dei 200 m di atletica. Durante la premiazione i due atleti salirono sul podio scalzi e sollevarono il pugno chiuso avvolto da un guanto nero, senza cantare l'inno nazionale americano.
Il tutto per portare il loro supporto al movimento del Black Power e all’“Olympic Project for Human Rights”. Entrambe queste organizzazioni, in quegli anni, si battevano per sconfiggere un male come il razzismo che “interessava” gli Stati Uniti d'America.
Ad immortalare quella scena, che sarebbe diventata conosciuta in tutta il mondo, fu la fotocamera Nikon di un certo John Dominis. La foto è diventata una delle più conosciute a livello mondiale visto che, per trasmettere il loro chiaro e semplice messaggio, né Smith e né Carlos hanno avuto bisogno di compiere chissà quali gesti. Bastò un semplice movimento del corpo per levare quel velo di indifferenza sugli occhi del mondo intero che non voleva sapere niente di una situazione assurda che interessava, da parecchio tempo, quello che ama definirsi il paese più democratico del mondo.