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Pubblichiamo un estratto del libro La rivoluzione del Rojava di Arzu Demir (traduzione di Francesco Marilungo), pubblicato dalla Red Star Press. Un libro potente, capace di raccontare nel dettaglio l’esperienza del Rojava e del Confederalismo democratico oltre gli stereotipi delle “belle guerrigliere” curde, che tanto hanno monopolizzato le cronache della guerra siriana dalla liberazione di Kobane in poi.

Armi Derzu ha fatto una vera indagine sul campo ed è tornata più volte in quelle zone della Siria, dove sotto l’impulso della resistenza curda si sta edificando un esperimento sociale tanto impetuoso da riuscire forse a ridisegnare il concetto stesso di rivoluzione.

L’autrice turca racconta gli eventi più dirompenti della lotta nel Rojava, indagandone gli aspetti più vari – dall’amministrazione della giustizia, al sistema economico, fino al concetto di proprietà e al ruolo dei comunisti – riuscendo ad abbattere quel velo di maya che rischiava di sbiadire questa grande lotta in una superficiale narrazione dal sapore “orientalista”.

 

Invece il Confederalismo democratico spiegato e raccontato minuziosamente – ma senza scadere nel retorico – è qualcosa di pulsante che ha la capacità di rapire chiunque sia interessato a riflettere sulla natura stessa dei concetti di autogoverno e contropotere.

Un libro che ha contribuito in maniera preponderante all’espulsione della casa editrice Ceylan Yayinlari dalla fiera del libro di Ankara solo un mese fa e che ha reso una volta di più Arzu Demir un’autrice scomoda nel paese del sultano Erdogan.

Sebbene l’argomento centrale del libro resti il Rojava e la sua rivoluzione, una piccola parte del testo è invece dedicata al racconto di una vicenda poco conosciuta, quella del massacro di Qamishlo del 2004. Durante quei giorni una semplice partita di calcio fa da sfondo a una tragedia in cui perdono la vita innocenti spettatori che hanno l’unica colpa di essere curdi.

In questa mattanza giocano un ruolo di primo piano i tifosi arabi della squadra opposta e le forze di sicurezza siriane e ancora una volta, lo stadio e i suoi spalti diventano il teatro in cui si anticipano le tragiche dinamiche che di lì a pochi anni insanguineranno il paese, così come già avvenuto sia nelle guerre balcaniche sia nell’area ex-sovietica sia in quella nordafricana.

E non è un caso che proprio quel massacro sia ricordato da molte persone intervistate nel Rojava come uno degli spartiacque decisivi della recente storia curda dove almeno trenta persone perdono la vita.

Ma questa storia – che ha un po’ dell’incredibile – è ritornata in auge verso la fine di settembre, quando diversi articoli comparsi su vari siti di informazione fra cui The New York Times, Huffington post e Turbolent world of Middle East Forum hanno rievocato la faccenda, intrecciandola con un recente fatto di cronaca che tanto aveva indignato.

La vicenda è nota a molti: durante l’estate 2015 al confine fra Serbia e Ungheria Petra Laszlo, una giornalista vicina al partito Jobbik, fa uno sgambetto contro un migrante in fuga dalla polizia. L’uomo con in braccio un bambino cade e diventa un simbolo della brutalità “ungherese” in un’estate di esodi disperati.

Ma la storia è una di quelle che commuove: si scopre che l’uomo, Osama Abdul Mohsen è un allenatore di calcio professionista e dalla Spagna cominciano le offerte di lavoro. La favola del migrante fortunato scoperchia un vaso di Pandora: dalla Siria, un comunicato del Pyd (Partito unione democratica – partito fratello del Pkk in Siria) accusa l’uomo in questione di essere un militante di Al-Nusra, ma soprattutto gli imputa una grande responsabilità nel massacro di Qamishlo, ossia quella di aver fomentato e a suo modo orientato i tifosi della squadra al-Fotuwa di Deir el-Zor. Questa è la storia:

 

La Repubblica araba siriana ha mantenuto come politica di stato quella di assimilare il popolo curdo all’interno del nazionalismo arabo. I curdi sono stati forzati ad abbandonare le loro terre e a migliaia sono stati esclusi dal diritto di cittadinanza siriana. Gli è stato proibito di sviluppare una loro politica. Per esempio i 13 partiti che esistevano prima della rivoluzione erano costretti a lavorare in segreto.

Il popolo curdo […] ha vissuto il secondo grande massacro della sua storia in Siria il giorno 12 marzo del 2004. Quel giorno, una partita di calcio è stata trasformata dal regime in un vero e proprio massacro. Ma il popolo curdo ha risposto al massacro con la rivolta.

Muhammet Emin Suleyman, che dopo la rivoluzione ha iniziato a lavorare per il Movimento per la società democratica (Tevdem), è una di quelle persone che sono state testimoni del massacro e della rivolta di Qamishlo.

Suleyman, arrestato durante il regime numerose volte per la sua attività politica, mi raccontò così il giorno del massacro: «Prima che iniziasse il match, i tifosi giunti da Deir el-Zor fecero un giro per Qamishlo cantando slogan contro Barzani e Talabani. In quei giorni nel Kurdistan meridionale si costituiva la regione del Kurdistan federale e alcuni fanatici arabi mostravano di non gradire questo fatto. In generale gli arabi che vivevano a Deir el-Zor erano dalla parte di Saddam e del Ba‘th. Dietro al massacro, c’era la volontà del regime di mettere curdi e arabi gli uni contro gli altri. Gli arabi di Deir el-Zor erano venuti preparati per gli scontri, portandosi dietro persino le pietre. In effetti la squadra di calcio, forse prevedendo ciò che sarebbe successo, non voleva disputare l’incontro. Più tardi apprendemmo che erano stati i tifosi a costringere la squadra a partire. Prima che iniziasse la partita, all’interno dello stadio cantavano slogan e lanciavano pietre verso i tifosi del Qamishlo che avevano nei loro zaini. La gente voleva uscire dallo stadio ma le porte erano state chiuse. Precedentemente mentre i tifosi entravano allo stadio, i curdi venivano perquisiti minuziosamente requisendo tutto quanto portavano con sé. Quindici minuti più tardi giunse anche il governatore di Haseke e poco dopo la radio siriana diede la notizia che “tre ragazzi erano morti soffocati nella calca”. Udendo questa notizia la gente prese a radunarsi attorno allo stadio. Gli scontri aumentavano di intensità, con la gente che da fuori lanciava oggetti e pietre all’interno. Le forze di sicurezza aprirono il fuoco. Quel giorno sei persone caddero martiri. Erano tutti curdi. Il giorno seguente volevamo andare al cimitero per seppellire i defunti. C’erano quasi 100.000 persone e la processione era totalmente pacifica. Quando la processione giunse davanti all’edificio della dogana, le forze del regime aprirono il fuoco. In quell’attacco perdemmo altri quattro amici, mentre i feriti erano a decine. Dopo l’attacco la folla si divise in due. Una parte si diresse verso il cimitero, mentre l’altra parte continuò a marciare e distrusse la statua di Assad andando avanti fino a sera. Da ogni evidenza era chiaro che lo stato si era preparato in precedenza. In alcuni punti precisi aprivano il fuoco sulla gente. Le pallottole che usavano erano di quelle che scoppiano dopo essere entrate nel corpo della vittima. Io fui arrestato e tenuto dapprima nell’unità politica di Qamishlo, poi per tre giorni a Tirbespi e infine fui portato a Haseke. Durante tutti questi spostamenti fui picchiato in continuazione, costretto a terra, torturato. Mi rilasciarono solo dopo diverso tempo».

 

 

Categoria: Fuori dal campo

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