Dici Cass Pennant e quello che viene in mente sono anni e anni allʼinsegna dellʼhooliganismo e di battaglie campali a suon di colpi proibiti per affermare quale fosse la migliore firm dʼoltremanica. Tutto verissimo, per carità, ma quanto appena affermato non basta a spiegare lʼintera parabola del personaggio. Celeberrimo leader della famosissima ICF (Intercity Firm), chiunque conosca un poco le sue vicende personali sa che questa è stata la prima, fondamentale, tappa della sua vita, ma non lʼultima. Infatti è da ormai diversi anni che ha deciso di abbandonare la militanza attiva nel mondo delle terraces, per cimentarsi in altri percorsi, diventando così tout court scrittore e regista. Proprio a causa di questa sua seconda vita, Cass sabato scorso è stato ospite in un Sally Brown gremito, per presentare il suo nuovo cortometraggio “Beverley”, basato sulla vera storia di una giovane di padre nero e madre bianca, Beverley per lʼappunto, alle prese con la sua lotta per affermare la propria identità in un periodo delicato come fu quello dellʼInghilterra thatcheriana, con una società che sebbene fosse sulla soglia di un cambiamento epocale, ancora non lo viveva in maniera partecipe.
Il cortometraggio non fa nulla per nascondere quella che era una nazione dilaniata dalle tensioni sociali, generazionali e razziali, in cui il tanto decantato melting-pot, frutto del modello multiculturale britannico, stentava a essere quello idealizzato dai suoi precorritori, ma sotto una superficie formale fatta da inclusione e retorica delle pari opportunità, si manifestavano tutte le storture e i pregiudizi, come quelli subiti dalla protagonista e dalla sua famiglia, non appena questa si trasferì nel centro urbano di Leicester e si dovette confrontare col perbenismo bigotto tanto degli anziani vicini, quanto dei suoi coetanei, una crew di giovani skinheads che se da un lato si mostravano non immuni alla campagna di reclutamento intrapresa dal National Front, dallʼaltro continuavano ad ascoltare e amare musica fatta da bianchi e neri. Sarà proprio questa musica, lo ska 2-tone, che oltre a fungere da splendida colonna sonora per la durata di tutto il corto, darà alla giovane Beverley la possibilità di ritagliarsi una propria identità, da rude-girl, e con essa lʼoccasione per il riscatto sociale e per mettere a nudo le contraddizioni dei suoi giovani coetanei con la testa rasata. Senza voler fungere da spoiler, uno degli aspetti interessanti di questo cortometraggio è da un lato lʼincetta di premi che ha già conquistato (UK Short London Indipendent Festival, East Eand Film Festival, Manchester Film festival e altri ancora...) fino ad arrivare alla nominaton per lʼOscar; e dallʼaltro per quanto concerne la sua realizzazione, infatti è stato portato a termine grazie a una campagna di crowdfounding, portata avanti prettamente negli ambienti skinheads e in quelli hooliganistici, che ha coperto quasi interamente le spese della realizzazione (la parte rimanente, che riguardava più che altro “i costumi”, è stata ricoperta dalla Fred Perry).
Queste circostanze confermano ancora una volta che anche dal basso, anche smarcandosi dai canovacci mainstream, si riescono a realizzare prodotti di alta qualità e fruibili anche ad un pubblico non di soli specialisti, e danno altresì un input a tutti coloro si cimentano nella produzione culturale indipendente, con tutte le difficoltà che ne conseguono e con cui ci abbiamo avuto tutti a che fare. Ma soprattutto, quello che è emerso inequivocabilmente dal dibattito successivo alla proiezione, è il bisogno di raccontarsi da parte dei protagonisti di quegli anni (come Neville Staple, voce dei The Specials, che recita in “Beverley”, e di Pauline Black, cantante dei The Selecter), di sottrarre la narrazione di quella che è stata una vera e propria epopea adolescenziale per decine di migliaia di kids di tutto il Regno Unito, a chi vorrebbe renderla un fenomeno folkloristico o nel migliore dei casi una nuova fetta di mercato, mentre dietro cʼè molto di più: cʼè il rifiuto dei canoni imposti dalla società e un soggetto giovanile diffuso che nonostante tanti tentativi di strumentalizzazione politica da parte dei settori più sciovinisti della destra nazionalista, ha ben presto realizzato che solo lʼunione nelle strade sarebbe potuta essere unʼancora di salvezza. Infatti, il valore imprescindibile di questa forma di autonarrazione è propedeutico per le nuove generazioni in un periodo in cui lo spettro dellʼesclusione sociale e della discriminazione razziale torna ad aleggiare nelle strade dei nostri quartieri, e proprio perché racconta senza quellʼautoreferenzialità, (presente soprattutto nei contesti calcistici a dir la verità), e le storture mediatiche che in passato hanno già gravato, e molto, sulla scena.
Da vero showman quale si è rivelato essere, Cass Pennant non si è sottratto a nessun tipo di domanda, non lesinando particolari nel racconto anche della sua vita privata, della quale, pur riconoscendo la differenza tra i vari periodi della sua vita, non rinnega nulla e riconosce che senza il suo background fatto di pub e gradinate non sarebbe arrivato dovʼè ora. Inevitabilmente, il dibattito si è spostato sul football e sulla sua mercificazione galoppante soprattutto oltremanica, e anche in quel frangente con la schiettezza che lo ha contraddistinto per tutta la serata, ha affrontato anche quelli che potevano essere argomenti scomodi, dal rapporto conflittuale con Paolo Di Canio (un mito per i fans degli hammers), fino a quello con le componenti più di destra della sua tifoseria e dellʼintero panorama britannico, tra i quali peraltro vi sono molti che lottarono per dimostrare la sua innocenza quando fu arrestato.
Ma probabilmente il punto più alto è stato quando si è alzato per indossare una t-shirt dellʼAtletico San Lorenzo, lodando il progetto e vedendolo come una forma di resistenza al calcio moderno e un ottimo veicolo di trasmissione dei valori da parte dei vecchi, e di chi in generale ha vissuto il calcio prima di questo tentativo di normalizzazione che sta sradicando la passione, ma soprattutto si presenta ai più giovani come inevitabile e legittimo. Non cʼè che dire, è stata davvero una gran bella serata, indimenticabile per tutti i presenti, non tanto per aver conosciuto un personaggio, ma una persona vera, che non si adagia sugli allori di una reputazione conquistata comunque sul campo, ma che ha tuttora voglia di mettersi in gioco e al servizio delle nuove generazioni con altri lavori di questo spessore, perché come ha affermato più volte durante la serata, anche mentre era in consolle, solo lʼautocomprensione di quello che si è stati consentirà lʼemancipazione di quel che sarà.
Giuseppe Ranieri