Da Messico ’68 alle iniziative per i ragazzi: sempre dalla stessa parte.
Una corrispondenza dal 13th TOMMIE SMITH YOUTH TRACK MEETING
Berkeley, CA. – LORENZO IERVOLINO
«That’s the word» dice con impeto, non appena termino la mia lunga domanda. Questa è la parola chiave: «The world» il mondo. La voce di Tommie Smith procede con cadenza musicale, non è troppo bassa né acuta, le parole lente e scelte con cura, il suo volto non mostra nessun segno di insofferenza rispetto a un pezzo di storia che avrà raccontato ormai migliaia di volte. Detentore di undici record mondiali, campione olimpico dei 200m, immortalato nella protesta del pugno col guanto nero sul podio delle Olimpiadi di Messico’68, non ha bisogno di tante presentazioni.
Intanto attorno a noi la seconda giornata del meeting giovanile da lui organizzato procede con le gare dei 1500 metri e del salto in lungo. Le competizioni riguardano tutte le discipline dell’atletica e sono rivolte a ragazzi e ragazze tra i 4 e i 16 anni, appartenenti in prevalenza alla comunità nera della Bay Area (per intenderci, la zona attorno a Oakland e San Francisco). Ieri, all’inaugurazione, lo speaker ha annunciato che i partecipanti sono milleduecento.
«Quel che io e John Carlos abbiamo fatto a Città del Messico non era solo rivolto alla gente nera, e non era per i diritti civili dei neri. No, noi eravamo interessati ai diritti umani, perché noi già allora avevamo ottenuto diritti civili, ma il modo in cui eravamo trattati nel nostro paese, i linciaggi che subivamo, la discriminazione, gli omicidi, beh, questi riguardavano una dimensione più ampia, più profonda. E il nostro messaggio, così come lo avevamo immaginato già da prima delle Olimpiadi, si allargava anche ai paesi africani. Per questo, per noi, la questione riguardava i diritti umani e si rivolgeva al mondo. To the whole world».
Sono da poco passate le 10 di mattina, il sole inizia a farsi sentire qui all’Edwards Stadium, uno dei tanti impianti dell’Università di Berkeley. Le famiglie che si sono sparpagliate sugli spalti sono ben organizzate e protette sotto tende e gazebo di ogni sorta, armati di trolley frigo da competizione. Fin dal primo sguardo, ieri mattina, più che una competizione di atletica mi è parsa una grande festa di comunità.
«Allora avevamo tante cose da dire, avevamo iniziato il Progetto Olimpico per i Diritti Umani, proprio per parlare delle condizioni disumane dei neri nel nostro paese. E noi atleti ne eravamo il paradosso vivente: ci veniva chiesto di correre e vincere per gli Stati Uniti, quando poi, lontano dalle piste e dai riflettori eravamo a malapena second class citizen».
L’Olympic Project for Human Rights è iniziato nel 1967, in vista proprio dei Giochi di Città del Messico, per iniziativa del professor Harry Edwards, un ex atleta all’Università di San Jose, da poco rientrato in ateneo come docente precario di Sociologia. All’epoca unico insegnante nero. Grazie a lui sono cambiate molte cose e la sua rabbiosa capacità persuasiva lo ha portato a coinvolgere atleti di fama mondiale, come il centro di UCLA Lew Alcindor (futura star dei Lakers col nome di Karim Abdul Jabaar), o la leggenda dei Boston Celtics Bill Russell, e diversi atleti possibili olimpici come i suoi tre studenti a San Jose, Lee Evans, John Carlos e Tommie Smith.
«Quel che ci mancava era il luogo adatto dove parlare, lo scenario giusto nel quale poterci esprimere. All’inizio eravamo intenzionati a boicottare i Giochi. Far sentire quanto pesava la mancanza di questi horses, cavalli ci chiamavano. Ma non eravamo cavalli da corsa, quindi avevamo intenzione di farci rispettare. Poi, alla fine, poco prima delle Olimpiadi decidemmo di andare e che lì avremmo inscenato una protesta. Non sapevamo quale, ma avevamo capito che qualcosa avremmo dovuto fare. Perché i Giochi Olimpici erano lo scenario adatto per il nostro messaggio».
Prima delle Olimpiadi sia Smith che Carlos ricevono minacce di morte, lettere, telefonate, intimidazioni di gente che si presenta sotto casa. Entrambi seppur molto giovani all’epoca, hanno già moglie e un figlio. Il professor Edwards decide addirittura di non partire perché con lui le intimidazioni vanno ben oltre la minaccia. Sono consapevoli che qualsiasi forma di insubordinazione potrà danneggiare le loro carriere, le loro vite, e anche la salute dei loro famigliari. Ma non si fermano.
«Così è sul podio olimpico che il nostro silent gesture ha potuto raggiungere più persone – come sai eravamo in diretta tv – e questo era l’importante: arrivare al mondo. E adesso, per risponderti, cosa provo? È ancora emozionante, ma dopo tutto quel che ho passato, la sensazione maggiore che provo è la determinazione che ne ho ricavato. La determinazione è importante».
La domanda seguiva una chiacchierata sul fenomeno delle palestre popolari in Italia, sui principi e le dinamiche che le caratterizzano. Argomenti ai quali Tommie C. Smith si è dimostrato molto interessato. Ed era all’incirca questa: Cosa si prova a essere un’ispirazione ancora oggi, persino nella lontana Italia, dove in quasi ogni palestra popolare c’è un poster se non addirittura un mural che ritrae la loro protesta.
La sera stessa della finale e del podio, il 16 Ottobre 1968, Smith e Carlos vengono espulsi dalla squadra olimpica statunitense, nei giorni seguenti vengono loro tolti i visti per il Messico e obbligati al rientro negli Usa, dove inizia un lunghissimo periodo di ostracismo, persecuzione, che li trascina in basso, molto in basso, finché i loro nomi non vengono dimenticati.
In quei lunghi 30 anni di oblio, Tommie Smith riesce con fatica a ottenere l’abilitazione per l’insegnamento, «Sono cresciuto in una famiglia con dodici figli, forse per questo ho sempre voluto insegnare ai bambini. O forse perché all’età in cui vanno alle scuole elementari si può dare loro di più, rispetto a quando crescono». Oltre a insegnare nelle Grammar school, Tommie riesce a ottenere qua e là incarichi da assistent coach, e prosegue la sua formazione come docente, conseguendo il master in Sociologia e andando così a insegnare all’high school e infine a un junior College a Santa Monica, dove praticamente nessuno conosce la sua storia. Ci vorranno ancora degli anni, tra la fine dei Novanta e l’inizio dei Duemila per riabilitare il suo nome, quello di John Carlos e perfino quello di Peter Norman. Lo sprinter australiano – deceduto nel 2006 – arrivò secondo in quella finale dei 200m e dimostrò la sua solidarietà alla protesta, subendo, al rientro in patria, le stesse conseguenze dei suoi colleghi afroamericani
Il meeting giovanile di atletica è quest’anno arrivato alla tredicesima edizione, ed è organizzato assieme all’Associazione no profit 100BalckMen, nata proprio nella Bay Area, e ora diffusasi in ben 107 città statunitensi «There are 107 chapters» mi conferma Lloyd Lawrence jr, uno dei fondatori, regalandomi una chiara assonanza con i chapters in cui era organizzato il Black Power party. Lawrence è un uomo vicino ai 70, piccoletto ma con un’ottima tenuta fisica che mostra disinvolto, in un completo sportivo giallo canarino. Gli chiedo come funziona il progetto durante l’anno. Mi spiega che tutti i chapters sono attivi nel creare borse di studio per i giovani atleti, destinate tanto ai migliori nello sport che ai più svantaggiati economicamente. Ci tiene a dire che le borse di studio non sono destinate solo ai ragazzi della comunità afroamericana. Il progetto non si limita a questo, ci sono programmi educativi e di sostegno psicologico che coinvolgono anche le famiglie, i ragazzini vengono portati all’opera, a teatro, vengono seguiti nello studio. «Cerchiamo insomma di dare loro un sostegno e di sostituire i modelli a cui si ispirano, soprattutto nei ghetti, sai, è un’impresa che non è semplice». I soldi arrivano da sponsor, da donatori, dalle iscrizioni all’Associazione, da campagne di fundraising, come quella in atto per mandare la squadra di staffetta 4x100 femminile a difendere il titolo ai campionati mondiali under 16 a Taipei. «Servono 25 mila dollari, per i viaggi e tutto il resto, ma siamo ottimisti, in qualche modo ce la faremo. Per noi è un grande orgoglio, queste ragazze sono uscite fuori da qui» mentre parla mi indica la pista, ora calpestata dalle velociste che fanno tra l’altro registrare tempi impressionanti: per la categoria dei 12 anni ci sono ragazze che tagliano il traguardo dei 100 sotto i 13 secondi.
Mark Alexander è invece il responsabile del programma Youth Movement, mi mostra il fascicolo dei dati e dei rilevamenti che li guidano nelle scelte e nelle strategie. «In zone come quella di Oakland, da cui molti di questi ragazzi provengono, i negozi di alcolici e le catene di fast food dominano l’offerta di cibo, propongono porzioni enormi ma scarsissima qualità. Questo fa innalzare il tasso di obesità, di inattività fisica, di anemia e calo della concentrazione. Per noi è fondamentale intervenire sulle loro abitudini, sostenere le famiglie materialmente oltre che in consapevolezza». Proseguiamo a scorrere i dati, a discutere, mentre nelle orecchie ci risuona, a cadenze regolari, lo sparo a salve dello starter – un volontario anche lui, come gli altri quaranta dell’organizzazione. «L’attività fisica, oltre ad agire sui loro corpi, accresce la stima personale, il livello di concentrazione e di coordinazione motoria. Inoltre abbiamo constatato che questi ragazzi coinvolti nel nostro programma migliorano notevolmente i loro risultati a scuola».
Passiamo poi a sfogliare le ultime pagine e ci soffermiamo su un’immagine di un playground con l’ingresso incatenato: sopra alla foto c’è scritto in grande «Unlock the Gates». Ci scambiamo uno sguardo d’intesa quando Mark aggiunge che è fondamentale, soprattutto nelle zone più svantaggiate, tenere i playground aperti, il pomeriggio, il week end, l’estate. Quello, del resto, è il loro ruolo: restare aperti. «Poi c’è bisogno di atleti che diano l’esempio, e qui noi per fortuna abbiamo il Dr Smith, che per i ragazzi è davvero una guida».
«Io non sono tutto bread and butter, Lorenzo» mi dice Tommie proprio a proposito di come si fa a rimanere un esempio in maniera coerente. «Io so essere anche duro, intransigente, quando la gente vuole avere a che fare col mio lavoro, coi miei ragazzi, perché questi qua» indica dei bambini piccolissimi che più che correre sembrano rotolare «are all my kids!». Poi torna a guardarmi. Dietro i suoi occhiali leggermente schermati, intravedo occhi grigi che virano sul verde, le mani enormi – quando ha stretto la mia destra ho temuto che mi fratturasse qualche dito – la forza e la tranquillità che solo un sopravvissuto sa dimostrare: «Se vogliono parlare dei miei ragazzi e di politica devono andarci piano, perché io sono qua a difenderli, a difendere quello che stiamo costruendo. Ho alzato il pugno perché volevo ottenere un cambiamento, spingere i giovani sulla strada della consapevolezza ed è quello che sto continuando a fare. Ho studiato per questo e so quello che faccio. E so anche che continuerò» qui il suo sguardo è così duro che mi fa quasi male «untill I die», finché muoio.
Prende un po’ di fiato. Si ferma a dare uno sguardo alla gara dei genitori, una staffetta dei 400 di intensità spaventosa, risolta solo sugli ultimi 40 metri da un papà di circa trentacinque anni. La gente applaude, fischia, grida nomi, si diverte. «Ti ho già detto che bisogna essere determinati, Lorenzo, e io ho imparato a esserlo. Ma tutto questo che vedi, tutto quel che mi appartiene, lo si può fare solo in un modo, solo così, non in latro modo. With love and determination. Con amore e determinazione».
Lorenzo Iervolino. Fa parte del collettivo di scrittori Terranullius ed è redattore dell’omonima rivista. Autore di “Le lotte a Mirafiori”, reading concerto tratto dal romanzo “Vogliamo tutto” di Nanni Balestrini e del romanzo memoir “Un giorno triste così felice. Sócrates, viaggio nella vita di un rivoluzionario” (2014. SixtySixandSecond Editore)