Billy Tully è un pugile sull’orlo del precipizio. Sta per imboccare definitivamente una via senza ritorno. Lo descrive così Leonard Gardner nel suo romanzo Città amara del 1969 recentemente ripubblicato da Fazi: «Mentre spostava a poco a poco un braccio, e raddrizzava una gamba, sentiva i muscoli pulsargli sulle ossa, con l’agonia del recluso. Era in gabbia. La vita gli sembrava prossima alla fine. Tra quattro giorni avrebbe compiuto trent’anni».
Eppure in quell’istante infinitamente lungo, in cui un pesce abbocca all’amo, il boxeur si dibatte con violenza. Non accetta di essere “issato a bordo”, spera ancora di slamare e scappare beffardo con un colpo di coda verso il profondo blu. Magari ferito, ma libero da chi vuole fargli la pelle.
Billy Tully insomma non vuole passare la linea d’ombra, quell’invisibile confine fra l’avventatezza e la maturità che Conrad ha saputo raccontare con dovizia nell’incipit di La linea d’ombra, il suo capolavoro del 1917. Il pugile vuole giocare fino all’ultimo la sua partita. Pur avendo finito le fiches. Pur avendo esaurito le carte vincenti.
Non ha paura di perdere, la sconfitta è la sua religione e la sua vita è un totem eretto al fallimento.
Poco importa se Tully ha la testa offuscata dall’ex moglie, in un misto grumoso di nostalgia idealizzante mentre ora se la fa con una certa Oma, gran brava ragazza, troppo condizionata però dall’amore perverso per l’alcool e dal ricordo continuo dei troppi matrimoni falliti. Ma Tully insiste: «Non ho mai picchiato una donna, in tutta la mia vita. Non sono uno di quei bastardi schifosi. Chiedilo a chi ti pare. E non abbandono mai gli amici. Lascia che ti offra da bere. Ci credi che puoi contare su di me?». E così con Oma gira per un po’ fino a quando l’alcool ritorna prepotente. Come nemico per entrambi. «Io sono pulito, adesso. Non bevo più. È che ogni tanto mi devo rilassare. Vivo con un’ubriacona, lo sai cosa vuol dire».
E se Tully intrattiene l’idea di tornare sul ring nel tentativo di recuperare il rispetto di sé, tra le pagine del romanzo compare anche un altro ritratto abbagliante, quello di Ernie Munger. Più giovane, quest’ultimo si affaccia al mondo del pugilato e sembra avere discrete speranze. I due si conoscono durante una sessione di “guanti” e Tully lo ricopre di complimenti. Sembra quasi interessato a proiettare la sua vita in quella del compagno di allenamenti: silenziosamente vanno in scena i «ah, se avessi la tua età», «se solo avessi il tuo fisico, giovane e “pulito”» e nel frattempo diventa una specie di padrino per l’esordiente. Ma se a Munger non manca la stoffa, quello che sembra non avere è invece la “tigna”, ovvero la tenacia e la determinazione. Un compagno di allenamento arriva persino a suggerirgli senza troppi giri di parole: «Sperare non serve a niente. Devi volere la vittoria. Devi volerla così tanto da sentire il sapore in bocca. E se la vuoi davvero, vinci. Devi pensare: cascasse il mondo, questo tizio non mi batterà mai. È troppo vecchio. Gli farò il culo». E aggiunge: «Devi voler vincere a tutti i costi. Il resto non conta. Se vuoi davvero fare il culo a qualcuno, glielo fai».
E così in un gioco di rimandi tra le pagine si scopre che quello che manca a Ernie ce l’ha Bill, quello che manca a Bill ce l’ha Ernie. Come in un affresco imperfetto e incompleto di sconfitti pur nelle vittorie.
Perché come ricorda Robert Luna, l’allenatore, il maestro della Lido Gym che prepara Munger e Tully, è la sicurezza l’arma segreta per un pugile: «La sicurezza, secondo Robert Luna, era l’ingrediente indispensabile del successo e lui ne aveva in abbondanza: era sicuro del suo destino, come pure degli atleti che allenava. Negli anni in cui ancora combatteva, aveva avuto dei dubbi, che in certi periodi erano degenerati in terrore. […] Dopo un sonoro pestaggio, dopo aver urinato sangue nello spogliatoio, si era domandato se i gloriosi combattimenti e i grandi compensi in cui aveva sperato, e che non erano mai arrivati, potevano giustificare tutto quello che aveva sopportato. Ma adesso la sua volontà era una luce pura e incrollabile, che ardeva persino nel sonno. Più che convinzione, la sua, era ottimismo fatalistico».
Insomma divorando le pagine di Città amara, si avverte distinto il sapore aspro del crine di cavallo e quello poroso della pelle ruvida dei guantoni di pelle stretti con spessi legacci capaci di scorticare la pelle dei pugili. Quelli pesanti, che si vedono ormai solo nei filmati d’epoca oppure appesi e abbandonati senza arte né parte dentro a locali che cercano di darsi un tono.
E se il romanzo è capace di restituire il meglio di un incontro, nonché l’autentica atmosfera dei ring di periferia, dove anche chi vince, viene comunque sconfitto, le pagine sono permeate da un certo spleen, da un’angoscia esistenziale verso il sogno americano: per ogni self made man che ce la fa, altre migliaia falliscono. Questa d’altronde è la vita.
Filippo Petrocelli