A 51 anni per qualcuno si è già sul viale del tramonto. Il cliché pretenderebbe addome voluminoso, rughe, abbigliamento giovanile e rimpianti.
Persino gli sportivi più longevi a quell’età diventano, nella migliore delle ipotesi, vecchie glorie da esibire come contorno a qualche evento sportivo in cui si ricordano i bei tempi andati e si celebrano gli eroi del passato, con tanto di pubblico intento in applausi rituali dal sapore nostalgico.
Eppure c’è un pugile che nella notte fra sabato e domenica 17-18 dicembre ha scritto un’indelebile pagina di storia della boxe. Senza volersi rassegnarsi al tempo che passa. E nonostante la dura sconfitta subita sul ring.
L’atleta in questione è Bernard Hopkins, classe 1965, 51 primavere e un palmares da far invidia ai grandi delle sedici corde con 55 vittorie, 8 sconfitte, 2 pareggi, nonché diverse cinture mondiale allacciate alla vita e avversari di primo piano affrontati sempre senza paura.
Nel suo score, pugili eccellenti: Roy Jones Jr., Oscar De La Hoya ma anche Joe Calzaghe, Jermain Taylor, Felix Trinidad e Sergey Kovalev. Il meglio della recente storia di questo sport.
Una carriera al vertice dei pesi medi già all’inizio degli anni Novanta, continuata poi nella seconda metà del Duemila nei mediomassimi. Insomma un boxeur da Hall of fame Bernard Hopkins, per gli amanti della boxe “The Executioner”, il boia.
Come un moderno Sanson, il boia della rivoluzione francese, con tanto di copricapo nero sulla testa e asce bipenne al seguito, si è presentato a Inglewood in California, per disputare sabato notte il suo ultimo incontro da professionista.
Non una sfilata per tributare l’onore delle armi, bensì un incontro vero con un pugile granitico di 24 anni di meno che poteva essere suo figlio.
Ad attenderlo all’angolo opposto appunto Joe Smith Jr., classe 1989, cronologicamente una vita a dividerli, perché Hopkins ha esordito da professionista proprio nel 1988, un anno prima che il suo sfidante vedesse la luce in un ospedale americano.
Eppure i due pugili hanno molto in comune: un trascorso fatto di sofferenze e marginalità con un riscatto che è passato per il ring e una maleodorante palestra di pugilato.
Così è andato in scena l’ultimo acuto di Bernard Hopkins: inizia rispondendo colpo sul colpo almeno fino al quinto round, quando la tenuta agonistica del rivale e il suo cardio prendono il sopravvento.
Perché sicuramente il mezzo secolo di vita di Hopkins pesa mentre scorrono minuti intensi in cui le teste si sforano, le spalle lavorano e la catena cinetica rende i colpi fatali fendenti.
E quindi il cuore non basta anche se “The Executioner” ne ha da vendere.
E così dalla quinta all’ottava ripresa è Smith a salire in cattedra e a dominare l’avversario. Un pressing asfissiante che trova il suo epilogo con una serie di sinistri che costringono Hopkins all’angolo prima, e poi lo fanno cadere rovinosamente fuori dal ring con un ultimo devastante montante sinistro che decreta la fine dell’avventura sportiva del “boia”.
È la prima sconfitta per k.o. della sua carriera. E arriva a 51 anni.
Smith festeggia ma non si esalta, perché bisogna necessariamente offrire l’onore delle armi.
La sconfitta subita da “The Executioner” potrebbe sembrare eccezionalmente dura, per alcuni persino senza senso. Ma boxare a quei livelli, a quell’età, contro un avversario coriaceo, duro, in forte ascesa e soprattutto molto più giovane, è un’impresa quasi mitologica.
Tant'è che la durissima sconfitta per k.o. si tramuta per l'anziano pugile in una sonante vittoria sulla vita e sullo sport.
Bernard Hopkins non ha voluto per la sua uscita di scena un incontro “passerella”, piuttosto ha scelto quello che gli americani chiamano in maniera sprezzante dogfight, un sanguinolento combattimento fra cani.
Una sfida impossibile che dimostra ancora una volta che Bernard Hopkins oltre essere un grande pugile è ancora un uomo costantemente impegnato nel superamento dei propri limiti.
E senza scadere nel malinconico, di sicuro agli appassionati del ring da questo momento in poi, mancherà il suo macabro rituale pre-match quando le sue braccia incrociate a X davanti alla faccia, scendevano velocemente sulla sua gola, a simulare perfettamente un’esecuzione.
Perché la boxe è anche questo, una rappresentazione antropologica della vita.
Filippo Petrocelli