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Andrea Genovali, Fare come in Russia, Red Star Press – Hellnation libri, Roma 2018.

Con la doverosa eccezione dei feticisti del tifo da stadio (come il sottoscritto) e di qualche appassionato dell’Italia dei Comuni, la rivalità tra Viareggio e Lucca è pressoché sconosciuta ai più, appiattita come la stragrande maggioranza delle dispute toscane su quella che probabilmente è la più sentita rivalità campanilistica del nostro paese, quella tra Pisa e Livorno.

Eppure, è proprio a un incontro di calcio tra le squadre delle due città che nei primi giorni del maggio del 1920, non solo si verifica la prima morte violenta su un campo da calcio della nostra penisola, ma soprattutto un tentativo rivoluzionario che poteva contare sulla suggestione di quanto accaduto pochi anni prima in Russia e di quanto si stava sviluppando, pur con fortuna diametralmente opposta all’ottobre russo, nell’Ungheria sovietica di Bela Kun e in Baviera.

 

D’altronde, benché si trattasse di una piccola cittadina che all’epoca dei fatti contava non più di 30.000 abitanti, Viareggio ha sempre mantenuto i geni della riottosità e della ribellione tipiche di ogni città di mare che ha visto incontrarsi e scontrarsi tanti popoli sulle sue coste. Circostanze che lasciano in eredità future generazioni di marinai e operai legati alle imbarcazioni, oltre che una fortissima tradizione anarchica (per via anche della contiguità con Carrara) e socialista. Allo stesso tempo la cittadina era una delle mete turistiche più ambite dall’alta borghesia del primo scorcio di Novecento, sia per le bellezze della costa e la comodità degli stabilimenti balneari, ma anche per il vivace fermento culturale che con l’aiuto dell’enorme prestigio del compositore lucchese Giacomo Puccini aveva nel teatro cittadino  il proprio epicentro, e aveva contribuito a cambiare anche il volto architettonico della città, o meglio di una parte di essa.

Già, perché il quadro che offriva la città nel 1920 era quello che usando le categorie moderne definiremmo una città gentrificata, divisa in due. Da un lato un parco dei divertimenti per i turisti e più in generale per le classi agiate sia della monarchia liberale che in seguito del regime fascista, e dall’altro quella propriamente proletaria che viveva di stenti, che vedeva i propri figli, padri e mariti andare in mare e spesso non li vedeva tornare.

Un po’ come in tutto il nostro paese, quindi, anche il proletariato viareggino fino alla piccola e media borghesia si ritrovò sommerso dalla crisi di riconversione dell’immediato dopoguerra, accentuato nella specificità locale dell’avvento dei motovelieri che scompaginarono letteralmente la tradizione  dei cantieri navali in modo da rendere ancora più amare le recriminazioni di chi si sentiva tradito dalle promesse non mantenute della Grande Guerra, le quali in alcuni segmenti sociali alimentarono così il mito della vittoria mutilata.

Com’è facile intuire, la situazione sociale era incandescente e sarebbe bastato un nonnulla per far divampare l’incendio del conflitto in quelle vaste praterie del malcontento, cosa che avvenne puntualmente al termine della partita di calcio con la Lucchese che, dati anche i precedenti e le differenze sociali tra la ricca e benestante Lucca e la proletaria Viareggio, si preannunciava già rovente anche per i precedenti. Così qualche decisione arbitrale discutibile e il pareggio acciuffato dagli ospiti in extremis diede il via alla gazzarra che si concluse con l’omicidio da parte di un carabiniere troppo zelante, che sparò al guardialinee viareggino uccidendolo,  uno Spaccarotella ante litteram verrebbe da dire, con la differenza che quello che successe lì fu più incisivo di quanto avvenne dopo l’assassinio di Gabriele Sandri.

Quella partita con la sua coda tragica fu il detonatore di tutta quella tensione che si respirava e diede il “là” all’insurrezione, capeggiata dalla camera del lavoro, dai sindacalisti massimalisti e anarchici che sedotti dal mito soreliano del grande sciopero generale emancipatore, furono in grado di organizzare gli insorti prendendo di fatto il possesso della città per qualche giorno. 

Il resto della storia è un susseguirsi di emozioni: quelle degli uomini e delle tante donne, dei marinai e degli operai che credendo fosse finalmente arrivato il loro giorno, si sostituirono alle autorità nella gestione della città, disarmando militari e carabinieri, distribuendo i viveri tra i cittadini, avocando a loro la gestione dell’ordine nelle strade trattando alla pari con lo stato regio e gli alti comandi militari; ma anche quelli della classe dirigente, del governo Nitti che mostrava tutta la sua ostilità agli operai, quelli di monarchia ed esercito che furono presi alla sprovvista dall’insurrezione e sebbene fossero consapevoli che questa rivolta non aveva possibilità di vittoria finale, sarebbe ugualmente potuta essere un pericolosissimo esempio per tutto il resto della penisola, anche per le manifestazioni di fraternità tra il popolo e i militari di leva (emblematica la frase riportata nel libro “Disarmateli, ma dategli da mangiare”!): se in una cittadina piccola come Viareggio operai e marinai erano riusciti a occupare le caserme, requisire le armi e controllare gli accessi e le vie di uscita dalla città, cosa sarebbe potuto succedere se la ribellione si fosse estesa alle grandi città industriali e ai suoi operai del Nord?

Probabilmente il grosso limite di una rivolta spontanea, oltre a quello di non essere stata pianificata e di non avere una strategia di ampio respiro, fu proprio quello di non aver ricevuto un appoggio da parte delle realtà circostanti (con la parziale eccezione di Livorno, ma quando a Viareggio si era già detta la parola fine), anzi in alcuni casi le Camere del Lavoro locali stigmatizzarono i compagni viareggini, per via del movente calcistico della rivolta!

Come era facilmente prevedibile, dopo un inizio trionfante, la reazione dello Stato mostrò i muscoli e le guide della rivolta si resero ben presto conto che la vera questione in ballo era quella di trattare una resa il più onorevole e indolore possibile, senza ritorsioni nei confronti della cittadinanza, ma allo stesso tempo bisognava convincere la popolazione della giustezza di quella visione e fare in modo che non si sentisse tradita dai suoi portavoce che pure dovevano trovare una sintesi delle loro posizioni non sempre concilianti.

Probabilmente il fatto che il grande pubblico conoscerà la storia della Repubblica Viareggina solo attraverso questo libro snello, scorrevole, ma allo stesso tempo esaustivo, è il risultato di un compromesso implicito che ha visto la città scampare a rappresaglie da parte dello stato, ma che in pegno ha dovuto fare calare l’oblio sulla vicenda, anche se le dinamiche e anche diversi protagonisti saranno rintracciabili durante i momenti più cruenti della lotta antifascista, e forse e proprio da esempi come questi che il fascismo, prima di farlo diventare una vetrina della propria presunta grandezza, guardava con sospetto al calcio e al suo potenziale sovversivo, visto che, con buona pace dei detrattori a priori, proprio il calcio aveva radunato e dato il là a quella che fu la più avanzata ribellione del periodo.

 

Giuseppe Ranieri

Categoria: Recensioni

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