Probabilmente se Carlos Queiroz, l’allenatore che è riuscito a far qualificare l’Iran ai mondiali per ben due volte di fila, avesse saputo che sarebbe capitato nello stesso girone di Spagna e Portogallo, avrebbe evitato di affermare, all’indomani della qualificazione alla fase finale ottenuta grazie a un successo sull’Uzbekistan, che la sua squadra sarebbe andata in Russia con velleità di passaggio del girone. Anche se la fortunosa vittoria di ieri contro il Marocco permette ancora di sognare. Ma in fin dei conti non è mai stato l’aspetto prettamente calcistico la principale attrattiva indotta dalla partecipazione della nazionale iraniana ai mondiali.
Sin dal 1978, anno della prima partecipazione alla competizione di un paese, l’Iran appunto, che di lì a poco avrebbe vissuto l’ennesimo cambiamento radicale del proprio assetto istituzionale con l’abbattimento dello Scià e l’istituzione della Repubblica islamica, l’attenzione per la nazionale iraniana è stata sempre subalterna a quanto accadeva in un contesto dal respiro ben più ampio. Un caso emblematico, ad esempio, è la vittoria, la prima e fino a ieri unica dell’Iran in una fase finale dei Mondiali, contro gli USA nel 1998 in Francia in una gara inutile ai fini della classifica (entrambe le squadre furono eliminate e di fatto si affrontavano per evitare l’ultimo posto nel girone), ma importantissima da un punto di vista simbolico, vissuta quasi come una festa nazionale da parte degli iraniani. E non poteva essere altrimenti visti i pessimi rapporti che intercorrono ininterrottamente tra i due stati dal 1979 a oggi, a partire proprio dalla famosa crisi degli ostaggi dell’ambasciata americana che costò molto cara a Carter.
Prima della partita infatti il leader supremo della Rivoluzione, l’ayatollah Khamenei, aveva posto il divieto ai suoi giocatori di andare incontro agli avversari all’ingresso in campo a dispetto del classico cerimoniale previsto nei match dei Mondiali e per evitare un pericoloso precedente, nonché per scongiurare una dimostrazione di impotenza da parte della FIFA, si ricorse alla salomonica decisione di far scendere in campo le due squadre mischiate con un mazzo di rose bianche per dare un segnale di pace.
Anche in quest’edizione, nonostante i progressi di una squadra che è stata la seconda a qualificarsi sul campo (dopo il Brasile) alla competizione e una rosa che può contare diverse individualità interessanti, e probabilmente in questo momento è la nazionale più in salute del continente asiatico, quello che attrarrà maggiormente gli osservatori saranno vicende non direttamente implicate col calcio giocato.
Non ci riferiamo a quelle voci che volevano un’esclusione dell’Iran dai Mondiali per via delle ingerenze della loro Federazione che aveva stigmatizzato pubblicamente Masoud Shojaei, calciatore del Panionios, reo di aver stretto la mano ai calciatori del Maccabi Tel Aviv in un match valido per il terzo turno preliminare di Europa League contravvenendo ai dettami iraniani che non riconoscono lo stato israeliano, che da quel momento, secondo le accuse, non sarebbe stato più convocato in nazionale per via di ingerenze politiche (il giocatore già in passato si era dimostrato ostile al regime scendendo in campo, insieme ad altri suoi compagni, con un laccio verde nel 2009 durante le proteste scatenatesi in seguito alle elezioni presidenziali che decretarono la vittoria di Ahmadinejad). Queste per l’appunto sono solo voci rimbalzate principalmente nel nostro paese a opera di una classe giornalistica sportiva alla disperata ricerca di scoop e appigli per mitigare il disastro realizzato sul campo e incurante di collezionare figuracce in serie, come dimostra anche la svilente operazione-simpatia per l’Islanda creata in queste ultime settimane.
Ciò che ha posto in queste ultime settimane sotto la lente d’ingrandimento il paese sciita è la questione della possibilità di accesso allo stadio per le donne iraniane (finora precluso a loro, mediante una legge del 1982, per preservarle da uno spettacolo violento, ricco di imprecazioni e dal vedere uomini in pantaloncini, e che consente loro soltanto di partecipare a spettacoli sportivi in cui gareggino solo donne), a maggior ragione dopo la recente apertura del Presidente Rohani a margine di un incontro dello scorso 22 maggio con atleti e atlete iraniane, al termine del quale ha dichiarato: “Non ci dovrebbero essere differenze tra uomini e donne nell'Islam, e per questo motivo le donne dovrebbero anche essere autorizzate a prendere parte a eventi sportivi […] Le nostre donne dovrebbero pagare per questo?” - chiese Rohani - "Il vero Islam non impedisce alle donne di impegnarsi in società. L'Islam non ha detto che la donna debba stare a casa. Dice che le donne possono partecipare a tutti gli affari sociali con l'hijab”.
Queste affermazioni fanno seguito alle rassicurazioni che lo stesso Rohani aveva fatto tre mesi prima al presidente della FIFA Gianni Infantino, all’indomani di una presenza di quest’ultimo allo Shahravard, il derby iraniano per antonomasia, quello tra Persepolis ed Esteghlal, in cui furono arrestate trentacinque donne che avrebbero voluto entrare nello stadio e in una conferenza stampa vide silenziare una giornalista che chiedeva una presa di posizione su tale divieto. In seguito a ciò il leader iraniano disse che erano cambiamenti che vanno fatti sì, ma gradualmente, e anche Masoumeh Ebtekar, la vice presidente iraniana agli affari familiari e alle donne, ha caldeggiato settori appositi da riservare alle donne, anche per via del paradosso del settembre precedente quando, durante il match di qualificazione ai Mondiali contro la Siria, le donne siriane poterono accedere allo stadio a differenza di quelle iraniane.
Un’ulteriore accelerazione si è avuta proprio grazie ad alcune donne, cinque per la precisione, che sfidando la legge, a fine aprile, sono riuscite a entrare nello stadio “Azadi” di Tehran travestite da uomini per vedere il loro Persepolis sconfiggere il Sepidrood Rasht e vincere il campionato iraniano, postando poi la foto del loro travestimento e aggiungendo che non è la prima volta che vi riuscivano, seguendo così l’esempio di Niloufar Ardalan che nel 2013 sfidò le autorità assistendo a una partita della nazionale maschile con tanto di messaggio anti-divieto. A dare manforte alle loro istanze anche una petizione globale per chiedere alla Federcalcio iraniana di consentire l’accesso allo stadio anche alle donne (https://e-activist.com/page/22632/petition/1?mode=DEMO&locale=en-US).
Infatti il triangolo tra Iran, donne e calcio può vantare una fiorente aneddotica che ha come primo punto focale la già citata rivoluzione del 1979 che porta al rovesciamento dello Scià e della sua idea di “modernizzazione a tappe forzate verso il modello occidentale” che tanti danni continua a produrre in varie parti del mondo anche oggi, fatta di concessioni alle potenze straniere, repressione interna e tenore di vita delle fasce più basse in costante riduzione di fronte a spese sfarzose della sua corte, e di una secolarizzazione spregiudicata che, a conti fatti, si rivelò un boomerang.
A rimetterci fu anche il calcio, visto come uno degli strumenti di propaganda del vecchio regime (proprio l’anno prima l’Iran aveva partecipato ai Mondiali per la prima volta), che vide non solo una perdita di rilevanza presso le nuove istituzioni statali, ma anche una perdita di identità: ad esempio, uno dei principali club di Tehran, il Taj [corona] divenne l’Esteghlal [indipendenza], lo stadio di Tehran cambiò nome da Aryamehr [luce degli ariani] ad Azadi [libertà], lo stesso tentativo fu fatto col Persepolis, la squadra dei ceti popolari, ma lì le istituzioni si dovettero arrendere. Parallelamente ci furono cambiamenti anche per le stesse donne che in precedenza furono “costrette” dallo Scià a togliere il velo (scriviamo costrette, perché l’obbligo di togliere il velo fu vissuto come una modernizzazione forzata e di fatto osteggiata da molte di esse), con la rivoluzione, soprattutto dopo la liquidazione delle fazioni laiche e apertamente marxiste dovute probabilmente a errori di valutazione da parte della leadership del “Tudeh”, il partito comunista iraniano, convinto di poter gestire quella transizione, videro ulteriormente contratte le proprie libertà individuali.
Negli anni successivi, tra la guerra con l’Iraq e il successivo embargo, il calcio sparì dall’agenda della classe dirigente iraniana, veniva visto come una sorta di Cavallo di Troia dell’Occidente, tant’è che per oltre un decennio si può parlare di periodo oscuro per l’intero movimento calcistico iraniano, interrotto da una fortunosa quanto insperata qualificazione ai Mondiali del’98 a spese dell’Australia, che risvegliò l’entusiasmo mai sopito per il calcio. Al triplice fischio che decretò il successo iraniano (a dir la verità, si trattò di un doppio pareggio 1-1 in casa e 2-2 in Australia) decine di migliaia di persone si riversarono in strada per festeggiare in ogni città e villaggio e quando, qualche giorno dopo, la nazionale venne accolta allo stadio Azadi, diverse migliaia di donne forzarono i cancelli per partecipare alla festa.
Si può affermare che quello fu l’anno zero per la rinascita del calcio iraniano (che comunque può annoverare il miglior marcatore di sempre in una nazionale, Ali Daei, che tra il 1993 e il 2006 segnò 109 reti in 149 partite) al punto da spingere il regime a trasmettere le partite di calcio, seppure in leggera differita di qualche minuto, in modo da poter “bonificare” la telecronaca da immagini e messaggi non in linea con i dettami del governo. Di lì a poco la maggiore visibilità della nazionale, soprattutto in seguito alla qualificazione al Mondiale del 2006, fu utilizzata dalle forze anti-governative come occasione per creare situazioni conflittuali in quel mosaico di contraddizioni che è lo scacchiere mediorientale, in cui non si ha mai la completa percezione di quanto una rivolta sia “autoctona” e di quanto invece essa possa essere indotta da forze esterne come puntualmente avviene in quegli Stati (molti di essi sicuramente non immuni da errori e peccati) che si mettono di traverso alla realizzazione di un nuovo ordine mondiale a trazione neo-liberista, come appunto l’Iran, soffocato per anni dalle sanzioni economiche e oltraggiato nella propria autonomia per quello che riguarda la questione nucleare. Un’ulteriore dimostrazione, proprio in questi giorni, proviene dal ritiro da parte della Nike degli scarpini per la nazionale, in osservanza delle sanzioni imposte dagli USA nel novembre 2015, che di fatto costringe i calciatori a comprare degli scarpini nuovi o a chiederli in prestito ai propri colleghi. Sulla stessa scia anche l’annullamento improvviso di due amichevoli premondiali contro Grecia e Kosovo che la dicono lunga su quanto la strada per la normalizzazione, tanto a livello internazionale, quanto per le questioni interne, sia ancora lunga, impervia e piena di ostacoli e nemici, sia sul rettangolo di gioco che nel concerto internazionale, ma quello che è certo è che resta il dispiacere per non poter pensare abbastanza alla nazionale iraniana per il suo valore sul campo e per le sue storie di calcio giocato.
Giuseppe Ranieri