Una delle poche costanti della mia vita è che quando mi ritrovo a prendere decisioni d’istinto, frutto del momento, successivamente me ne pento sempre e devo ammettere di avere pensato a ciò anche la notte di venerdì scorso, quando ho maturato la decisione di andare a Quarto. In fin dei conti ero stato a Napoli quattro giorni prima a chiusura di un periodo in cui per vari impegni ho fatto su e giù per la penisola senza sosta e la cassa di autofinanziamento di sport popolare langue.
Fortunatamente, ogni regola per essere tale deve necessariamente avere un’eccezione e nel mio caso si è trattata proprio di questo viaggio, perché nonostante tutto, le parziali giustificazioni appena elencate non potevano né risparmiarmi dai rimorsi se fossi rimasto a casa e nemmeno essere un concreto contrappeso alla voglia di andare a salutare il Quartograd, la sua tribù e tutte le altre realtà presenti.
Così dopo aver bloccato un blablacar in extremis, e con quella consueta dose di ritardo che ormai è un tratto distintivo (che a posteriori mi ha fatto desistere dal classico tour gastronomico nei pressi della stazione centrale), mi metto in viaggio alla volta di Piazza Garibaldi, da dove poi avrei preso i mezzi per arrivare a destinazione.
Non è la prima volta che prendo la “Cumana”, ad esempio la presi esattamente due anni prima per venire sempre al compleanno del Quartograd. Nonostante ciò il passaggio graduale dal centro di Napoli alla sua periferia, a maggior ragione nel primo pomeriggio di un sabato estivo e molto soleggiato, è pur sempre suggestivo, dovendo passare in tutti quei quartieri alle prese con le loro battaglie quotidiane, sintetizzate dalle scritte sui muri, alcune combattute in silenzio, altre invece nel corso degli anni sono salite anche alla ribalta nazionale e, complice anche la lentezza del trenino, mi fa vivere quasi una sorta di ritorno al passato recente ed è in questo mood che mi dirigo verso lo stadio di Quarto, curioso di vedere cosa fosse rimasto di immutato in questi due anni intercorsi tra le due feste a cui ho partecipato e quanto invece fosse cambiato a livello di percezione collettiva.
D’altro canto Napoli, e la Campania in generale, rappresenta probabilmente il principale epicentro del calcio popolare italiano, visto il numero di squadre che ospita e le specificità di ogni progetto che fanno sì che ognuna di esse abbia declinato a modo proprio il rapporto col proprio territorio e quindi che abbia molto di più di una semplice storia da raccontare. Inoltre, non lo nego, ho sempre pensato che probabilmente questa situazione derivi dalla particolarità della città partenopea di essere una delle poche piazze storiche del calcio italiano ad avere un’unica squadra cittadina, e dalla visceralità con cui si vive a queste latitudini il rapporto con essa e col calcio in generale. Oltre a ciò, viene da pensare a quanto le uscite infelici dell’attuale presidente (ce ne sarebbero a bizzeffe: dalla battuta neanche tanto fantasiosa di un nuovo stadio da 20.000 posti stile circolo del tennis con le poltrone in pelle umana, alla presentazione di qualche anno fa della squadra su uno yacht da cui in pratica furono escluse le componenti più calorose della tifoseria, passando per il caro-biglietti ecc…) abbiano allontanato dagli azzurri tanti sostenitori che si sentono quasi come indesiderati allo stadio, un intralcio agli strampalati sogni di grandeur di De Laurentiis che parla sempre col cuore in una mano e il portafogli nell’altra; insomma un terreno fertilissimo in cui far germogliare un’altra idea di calcio dopo che sono emerse tutte le insostenibili contraddizioni del calcio moderno.
Dopo aver chiesto indicazioni per strada, scorgo il murales che colora il muro esterno dello stadio “Giarruso” e mi dirigo verso il campo dove sin da fuori riesco a scorgere molta gente, sia dei padroni di casa che hanno organizzato tutto egregiamente riuscendo a non lasciare scoperto nessun ambito, sia dei molti ospiti presenti.
Di primo acchito, non ci vuole molto a rendersi conto di come l’organizzazione si sia affinata, nulla è lasciato al caso e il clima è davvero piacevole; qualsiasi frase sintetica buttata in questo articolo non renderebbe appieno l’idea ciò che sta realizzando il Quartograd e più in generale di quello che si è realizzato e si sta realizzando a Quarto, perché l’idea che si ha dall’esterno è che ci sia ancora tanta propulsività, non solo dal punto di vista agonistico, ma anche e soprattutto da quello sociale e politico, e la presenza di persone di tutte le età e provenienti da tutta la città non può che avvalorare questa tesi e dimostrare quanto bene stia lavorando il sodalizio rossoblù; e poi, come mi ha specificato uno dei miei più cari amici di Quarto, che per via del lavoro non ha potuto esserci, è automatico sentirsi a casa propria e rimarcarlo sarebbe solo retorica a cui la gente come noi non è abituata.
Il torneo di calcio è già iniziato così come la jam sui muri interni dove i nuovi graffiti daranno un ulteriore tocco di colore all’impianto, con selezioni musicali funky, hip hop ecc… da tutto il mondo a fungere da colonna sonora. Ovviamente, e non poteva essere altrimenti, c’è un punto di ristoro con prezzi che farebbero impallidire diversi spazi sociali e di fronte a esso, un gazebo sotto il quale vengono preparati panini a dir poco spettacolari che in un qualsiasi quartiere soggetto alla gentrificazione sarebbero definiti gourmet e costerebbero un occhio della testa, ma fortunatamente non qui, dove certe logiche fortunatamente ancora non attecchiscono.
Il tempo di bere tutta d’un fiato la prima birra e mi avvio verso gli spalti per cominciare a salutare i presenti; non nego la duplice soddisfazione sia personale che generale, per le varie discussioni affrontate in maniera informale, per essere stato avvicinato da esponenti di quelle realtà con cui (per colpa nostra…) non avevamo ancora instaurato un contatto che riuscisse ad andare oltre una chat e non vi nego che essere ricercato per scambiare opinioni e notizie sulle realtà geograficamente più lontane è stato un grosso motivo di soddisfazione. Ma a dir la verità ciò che mi ha colpito di più e che allo stesso tempo ha risposto al quesito che mi ero posto lungo il viaggio di andata è stata la consapevolezza che emergeva con naturalezza dai discorsi di chi si è reso conto di stare contribuendo a creare una realtà alternativa a quella del “prodotto calcio”, cioè quello che proprio in questo periodo dell’anno si ritrova a fare l’ormai tragicamente abituale bollettino di fallimenti di società gloriose, ammende, deferimenti, penalizzazioni e chi più ne ha più ne metta.
Dalla bocca di quei protagonisti che animano le loro comunità, così come le pagine del nostro blog, sono emerse proposte, bisogni di un confronto generale che manca dai tempi dell’assemblea di Roma del gennaio 2016 per provare a imboccare una direzione condivisa e collettiva di fronte a sfide nuove che i campionati esaltanti di molte squadre con annesse promozioni in categorie finora ignote hanno generato, e che ora come non mai sembra impellente, magari già a partire dalla paventata tavola rotonda che ci sarà il primo giorno della No-Racism Cup a Otranto il 9 agosto, proprio perché consci che solo tramite tentativi che non necessariamente andranno tutti a buon fine (d’altronde sbagliare è umano) si potrà continuare a coltivare questo modello di riappropriazione.
Nonostante il sole la faccia da padrone e nel bar di fronte l’impianto diano in televisione quella che finora è stata forse la partita più divertente del Mondiale (Francia - Argentina) tutti, salvo per qualche fuga clandestina per andare a bersi un caffè da inframezzo tra le varie birre (perché farsi vedere con un caffè, come dicono da queste parti sarebbe “scuorno”), preferiscono continuare a stare sugli spalti del Giarrusso, per quello che con ogni probabilità è stato l’evento più grande di calcio popolare dell’anno e questo non può che essere un altro punto di merito per il Quartograd, che è stato in grado di riunire tante realtà del Sud Italia, oltre che amici ed estimatori dal Belgio e dalla Germania giunti per rendere i giusti onori ai festeggiati.
Col calar del sole, finisce pure il torneo e a differenza dell’ultima volta ho anche la certezza di chi lo abbia vinto, la Lokomotiv Flegrea che ha battuto in finale il Cava United FC. Il tempo delle premiazioni e poi si passa alle esibizioni dal vivo di artisti locali e un dj set ska e rocksteady che accompagna la festa fino alla sua conclusione, non senza il rituale taglio della torta e l’altrettanto rituale batteria di fuochi d’artificio e torce per non farsi mancare nulla, e per far divertire e rilassare un attimo anche i ragazzi che, guidati dal “presidentissimo”, hanno lavorato incessantemente affinché l’organizzazione fosse impeccabile. Dopo aver cominciato a salutare i primi ospiti, pronti a rientrare nelle loro località, e continuato a dialogare sul calcio popolare, sulle curve, sulle rispettive realtà politiche e non, confrontando i vari progetti futuri e promettendo di tenersi in contatto con maggiore frequenza già a partire dall’inizio della prossima stagione, si è fatta tarda notte e sono dovuto rientrare al Metropark per ritornare a Roma, non prima di aver salutato e ringraziato tutti per avermi fatto sentire a casa mia e avermi dato nuovi stimoli per continuare a raccontare di calcio popolare.
Il viaggio da Quarto a Piazza Garibaldi, passando dalla periferia fino alle vie più in, con tanto di motorino che si ferma senza preavviso in una strada tanto buia quanto trafficata e mi fa arrivare a destinazione in extremis, potrebbe essere di per sé materia per uno di quei libri che raccontano la nostra generazione alle prese con quel grosso e fottuto imprevisto che è la vita quotidiana, e che sono sicuro imperverseranno ancora in un futuro prossimo, ma questa è un’altra storia…
Giuseppe Ranieri