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C’è un bel documentario su Netflix. Si chiama Forever Pure (2016) e racconta la storia della tifoseria del Beitar Jerusalem e più in generale della squadra, con un focus sulla stagione 2013-2014, quando va in scena un feroce braccio di ferro fra la tifoseria e il presidente Arcadi Gaydamak, un discusso uomo d’affari non proprio amato di suoi tifosi.

Fin qui tutto bene, classica “storia di pallone”: tensione fra curva e presidente, un canovaccio già visto. Ma in realtà dietro questo scenario apparentemente innocuo si cela ben altro, che racconta, meglio di qualunque analisi politica, una parte rilevante della società israeliana odierna. Perché la goccia che fa traboccare il vaso – rompendo il già precario equilibrio fra tifosi e presidente – è l’acquisto di due giocatori ceceni di religione musulmana, Zaur Sadaev (attaccante) e Zhabrail Kadiev (difensore) da parte della dirigenza del Beitar.

 

L’arrivo di questi due giocatori scatena quindi un putiferio, e la parte più organizzata della tifoseria, La Familia – gruppo ultras fondato nel 2005, sugli scudi in Israele – riesce a trascinare tutto lo stadio in una faida che si interrompe solo con la cessione dei due e con il “sacrificio” dei vertici del club, in un insolito trionfo della parte più estrema dei supporter del Beitar, capace di trascinarsi dietro anche i semplici sostenitori della squadra, non appartenenti a nessun gruppo. Per quanto assurdo possa sembrare, in quella che in molti considerano una periferia calcistica, succede qualcosa di dirompente per le dinamiche interne al mondo del calcio e agli equilibri fra tifo organizzato e società sportive. Perché fra le altre cose La Familia è un gruppo non solo riconosciuto dal club ma anche foraggiato economicamente dalla stessa società, nonostante più volte la dirigenza della squadra si sia dovuta dissociare pubblicamente da alcune “idee” promosse sugli spalti.

 

Ebrei orientali, Destra sionista e Beitar

Prima di entrare nel vivo di Forever Pure, occorre spendere due parole sul Beitar Jerusalem per capire meglio le dinamiche in atto e per offrire alcuni spunti utili di riflessione.

Il Beitar in Israele è un simbolo, come descritto magistralmente dal giornalista e tifoso della squadra, Erel Segal, proprio nel documentario: «Il Beitar Jerusalem è una squadra che va oltre il semplice gioco del calcio. Per decenni infatti rappresentò gli ebrei mizrahì e la destra politica. Nel corso degli anni, divenne l’incarnazione politica dell’“altra” Israele. Era la squadra dei meno privilegiati. Poi, all’improvviso, il Beitar Gerusalemme divenne un impero, la squadra del paese, vincendo campionati e titoli uno dietro l’altro. Oggi, siamo diventati il paese. Il secondo Israele è il primo, ora».

«L’incarnazione politica dell’“altra” Israele», come ricordato appunto da Segal, quella a lungo considerata di serie b, almeno fino al trionfo di Menachem Begin alle elezioni del 1977, il primo in cui la sinistra sionista viene sconfitta dalla fondazione di Israele (1948). Il discorso è complesso, ma tagliando con l’accetta e semplificando, può essere così riassunto: il Beitar è nei fatti la squadra degli ebrei mizrahì, gli ebrei orientali (nel senso di provenienti dal Medio Oriente, da paesi come Iraq, Marocco, Tunisia, Libia, Egitto, Siria, Yemen), che si sono sempre percepiti come “figli di un dio minore”, rispetto invece agli ebrei ashkenaziti – cioè quelli provenienti dall’Europa centrale e orientale – che hanno rappresentato l’ossatura e intellighenzia di Israele, così come anche con gli ebrei sefarditi (originari della Spagna).

In altre parole invece, per chi mastica invece un po’ di politica israeliana, il Beitar può essere vista come la polisportiva del Movimento sionista revisionista, fondato da Vladimir Žabotinskij all’inizio del Novecento. Per Sionismo revisionista si intende quel movimento nazionalista di destra (ma sarebbe forse più corretto dire di estrema destra) interno al sionismo propriamente detto, che combatte per la costruzione di uno stato Israeliano sulle due sponde del Giordano. L’ideologia di questo movimento è fortemente antisocialista e antiaraba, ed è sempre esistita – anche prima del ’48 – all’interno di Israele prima nel partito Herut, che confluisce poi all’interno del Likud nel 1973 (il “nuovo partito”, appunto la nuova veste politica del Sionismo revisionista).

La connessione fra destra politica e Beitar Jerusalem è evidente dalle parti del Teddy stadium (lo stadio del Beitar): uno come Benjamin Netanyahu, attuale premier israeliano e leader del Likud, è di casa, al punto che ha festeggiato la sua prima elezione nel 1999 sugli spalti dello stadio dicendo solo due parole: «Forza Beitar», e ricevendo in tutta risposta dai tifosi un accorato «Morte agli arabi». Oppure Avigdor Lieberman, il falco del partito ultra-nazionalista Israel Beytenu e attuale ministro delle difesa israeliano, che non si perde una partita della sua squadra del cuore. Il tutto è lampante in Forever Pure.

 

From Cecenia to Beitar

Tornando al documentario, dopo l’arrivo dei due giocatori ceceni iniziano le tensioni: ripetute volte i membri de La Familia insultano i nuovi acquisti. Non c’è allenamento o partita in cui non risuonino frasi come: «Fuck you Kadayev, Fuck you Sudaev», piuttosto che espliciti inviti a tornare a casa e feroci contestazioni della dirigenza. D’altronde il tenore generale dei cori da stadio de La Familia è roba del tipo: «Guerra! Guerra!», piuttosto che: «La nostra speranza non è ancora svanita, una speranza vecchia di 2000 anni, di essere una nazione libera, nella nostra terra, la terra di Sion e di Gerusalemme». Oppure: «Siamo dei credenti, figli di credenti e non facciamo affidamento su nessuno tranne che sul Padre, il padre che è nei cieli», in un magma pericoloso in cui il nazionalismo si interseca con la religione, passando per la “razza”. E il Beitar diventa il discrimine «o con il Beitar o contro il Beitar».

Uno dei passaggi chiave dell’intera vicenda avviene il 3 marzo 2013: Saudayev segna un goal. Una parte dello stadio applaude soddisfatta mentre la curva orientale – quella dove La Familia è insediata – inizia a fischiare la squadra, poco prima di abbandonare in massa lo stadio. Pochi giorni prima era comparso sugli spalti uno striscione «Beitar forever pure», Beitar per sempre puro. Una purezza che secondo i tifosi sarebbe venuta meno con l’acquisto di due giocatori musulmani. Ma non basta: proprio in quei giorni viene incendiato un piccolo museo dentro la sede della squadra dove sono conservati non solo i trofei, ma anche le maglie storiche del team. Ovviamente il dito viene puntato contro la frangia più estrema dei tifosi per “l’affare ceceno”.

E a cosa può arrivare un sostenitore della squadra, è esplicito in questo colloquio fra un tifoso e uno speaker radiofonico di una trasmissione per tifosi del Beitar immortalato nel documentario:

Tifoso: Se avessi una figlia, le permetteresti di sposare un arabo?

Speaker: Ma cosa c’entra?

Tifoso: Certe persone credono che il Beitar Jerusalem sia come un figlio per loro, e lo trattano di conseguenza.

Da quel momento in poi la stagione del Beitar è compromessa: per la squadra i tifosi hanno sempre rappresentato il “dodicesimo uomo”, e ora che gli spalti sono vuoti, anche sul piano dei risultati le cose peggiorano. La prova di forza de La Familia riesce alla perfezione e da quel momento inizia un boicottaggio strisciante della squadra, il cui eco continua anche sulle radio “locali”: «Avevi detto che eravamo pochi, un gruppetto da niente. Questo gruppetto ha fatto sì che 15.000, 20.000 tifosi seri boicottassero il club. Noi siamo i veri tifosi del Beitar». L’intervento è ovviamente di un membro de La Familia che stuzzica il “moderato” conduttore radiofonico.

A complicare il tutto arriva anche una frattura interna allo spogliatoio. Gli ultras iniziano a bersagliare anche il capitano e portiere della squadra – in precedenza loro grande idolo – Ariel Yarush, accusato di essere un traditore proprio per aver accettato i due ceceni. Nei cuori dei membri de La Familia inizia a farsi largo il nome del centrocampista del Beitar Ofir Kriaf, il cui fratello è fra le altre cose un membro di spicco del gruppo ultras. Kriaf ha espresso più volte sui social il suo sostegno a La Familia e anche nel momento del boicottaggio non ha smesso di strizzare l’occhio alla curva orientale. La verità è che Kriaf stesso, cresciuto a pane e Beitar, non vuole due musulmani in squadra.

Il giovane Kriaf quindi diventa il nuovo idolo de La Familia, che torna sugli spalti solo per l’ultima partita della stagione, “contribuendo” al salvataggio in extremis della squadra che non retrocede.

Addirittura prima della fine della stagione, Sadaev e Kadiev tornano in patria, la loro permanenza a Gerusalemme è durata pochi mesi. La storia non si conclude senza strascichi: il presidente vende la squadra, il direttore generale è costretto alle dimissioni, così come l’allenatore. Anche il capitano Yarush viene ceduto. Ma la nuova dirigenza rassicura tutti, nei suoi progetti futuri non è ventilata l’ipotesi di acquistare nessun calciatore arabo o musulmano, e il Beitar potrà rimanere per sempre puro.

 

Filippo Petrocelli

Categoria: Recensioni

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