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L’estate del 1998, per uno che oggi ha poco più di trent’anni e ama lo sport, è stata qualcosa di difficilmente ripetibile. Sicuramente c’entra l’età ideale, già abbastanza adulta per seguire tutto in ogni suo aspetto, ma ancora sufficientemente fanciulla da vivere le cose con uno stupore e un’emozione prossimi all’assoluto. Fu l’estate in cui si disputò il Mondiale di calcio più bello della storia. Di rigori che si stampano sulla traversa e di copiose lacrime dodicenni, di uno Zidane onirico, della caduta del Fenomeno.  Ma in realtà fu quello che successe prima e dopo a segnare la memoria in modo tale che ancora adesso, affondando nei ricordi, le emozioni tornino a pelle. L’estate di Marco Pantani, che forse è tanto potente nell’immaginario anche perché mai più ripetuta.

 

Il Giro d’Italia si adagia sulle ultime settimane di scuola, con i ritmi della vita ancora segnati dalla normale routine, e qualche allenamento pomeridiano saltato in caso di concomitante tappa di montagna. Pantani il Giro deve provare a vincerlo, è un obiettivo possibile, la forma è ottima dopo anni di sfortune, il mostro Ullrich fa solo il Tour. Sarà dura, perché Zülle e Tonkov non sono venuti per turismo, e poi Pantani perde tanto a cronometro, si sa. Ed è dura, fino a Montecampione, dove già in maglia rosa prende a frustate Tonkov fino a staccarlo e si assicura il vantaggio necessario a non temere più la crono. Finalmente Pantani ha avuto il trionfo che merita.

Al Tour non gli è richiesto di vincere per forza, anche la squadra è meno forte che al Giro, ma è quasi certo che se ne vedranno delle belle, il personaggio è di quelli che possono forzare ogni limite. È l’estate, con la lettura religiosa della Gazzetta ogni mattina in spiaggia, lo studio rapito delle altimetrie, l’immaginazione accesa da montagne dai nomi che diventano evocativi in virtù della storia da lì transitata. È anche il Tour dello scandalo Festina, negli anni in cui la questione del doping esplode definitivamente. Fondamentale essere ogni giorno al passo di tutte le notizie e le indiscrezioni, prima di recarsi al bar del campeggio per il rituale pomeridiano, autenticamente di massa, come dalle nostre parti ormai succede solo per i grandi eventi di pallone. Tutti a guardare un televisore non grande, piazzato in alto, a maledire il segnale ballerino che arriva dagli elicotteri e dalle moto che seguono il gruppo, a seguire una corsa che vede Ullrich in giallo sui Pirenei, con Pantani però sempre lì. Chi ostenta pessimismo, chi mette le mani avanti (“va bene se vince un paio di tappe”), sperando in cuor proprio che quella cosa succeda davvero. E il 27 luglio succede, sulle Alpi, in una giornata di pioggia e nebbia Pantani attacca sul Galibier con una potenza inaudita. L’arrivo è lontano: qualche chilometro di quell’inferno, la discesa, un pezzo di pianura e la salita finale. “È grande, sta facendo una follia ma che bellezza, godiamocela, magari la tappa la vince”. Ma intanto a ogni segnalazione dei distacchi arriva un colpo al cuore. A ogni inquadratura di Ullrich sofferente lo stomaco si stringe. La trama è perfetta, in cima al Galibier il gruppetto dei fuggitivi gli permette di non restare solo, poi sull’ultima salita arrivederci a tutti. Ullrich perde minuti senza colpo ferire. Lo ha fatto davvero, ha vinto il Tour, lo ha vinto regalando una giornata di sport della quale a venti anni di distanza si riescono ancora a sentire i brividi sulla pelle. E non succede praticamente mai. Dal bar del campeggio, sulla linea del traguardo, un applauso lungo e assorto, quasi nessuno aveva parole.

Ma è ora di mettere da parte questa inquadratura soggettiva, perché c’è un libro che ha il grande pregio di raccontare tutta la storia, non solo l’estate del ’98, senza tralasciare nessun aspetto ma riuscendo a restituire in modo pieno quelle emozioni. Con Pantani era un dio (66thand2nd, 2014) Marco Pastonesi, storica penna della Gazzetta, riesce nella non facile impresa di elaborare un ritratto del Pirata che non si nutre in alcun modo dei lati scandalistici e dietrologici delle sue vicende. L’autore, degno erede della solida tradizione della narrazione sportiva italiana del Novecento, racconta tutto senza alcuna reticenza. Le imprese sportive innanzitutto, dall’impressionante rendimento nelle giovanili ai trionfi immortali, passando per i tanti clamorosi infortuni. Pastonesi racconta con semplicità, del resto il ciclismo è di per sé il più epico degli sport, non c’è necessità di ricercare troppo l’enfasi: lo scorrere delle pagine emoziona senza dover ricorrere alla retorica, gli occhi leggono e la mente visualizza le immagini che ha conosciuto ormai tanti anni fa. Il Mortirolo che lo porta alla ribalta, le due magnifiche danze sull’Alpe d’Huez, l’estate del ’98, e poi ancora il Mont Ventoux e Courchevel nel 2000 contro l’alieno Armstrong, e tante altre cose nel frattempo. Che semplicemente viene da ringraziare di averle potute vedere.

E poi c’è tutto il resto: il rapporto con la sua compagna Christina, tanto importante quanto reso – artificialmente – controverso dalla stampa e dalle voci di corridoio, la cocaina che dal ’99 in poi fa ingresso nella sua vita per non uscirne più, ma anche in questo caso siamo nell’ambito dell’uomo e del suo intimo, e se è giusto raccontare, è doveroso rifuggire ogni morbosità. E poi c’è il doping, che invece è questione pubblica. Pastonesi contestualizza bene le vicende di quegli anni nella storia del doping, che nel ciclismo è presente da sempre e probabilmente per sempre. Semplicemente, negli anni ’90 si è iniziato a perseguirlo, anche perché c’è stato un salto di qualità: dagli intrugli anfetaminici di una volta all’aumento artificiale delle capacità di ossigenazione del sangue, molto più incisivo sui risultati e anche molto più pericoloso per la salute. Prima le autotrasfusioni, poi la famigerata EPO. Tutti ne fanno uso, almeno quelli di alta classifica, e negli anni si abbatteranno senza pietà le scomuniche a posteriori, senza eccezioni. C’è chi viene beccato sul momento, come la Festina e Pantani, e chi prima può completare senza problemi la carriera, ma poi si vede infangato a posteriori. Le dietrologie e i sospetti sul perché a qualcuno prima e a qualcun altro dopo, così come qualche stranezza nella vicenda della sospensione di Pantani a Madonna di Campiglio, non possono non sorgere, e giustamente ne viene fatta menzione, ma anche qui il pregio sta nel non fare di questi aspetti il fulcro della vicenda. Tutto questo è esistito, ma non ha alcun diritto di inquinare l’impresa sportiva, soprattutto nel vissuto emotivo sia del protagonista che di tutti coloro che l’amavano. A nulla servirebbe insistere sul “lo hanno derubato, è stato tutto un complotto”, o al contrario sul “era dopato quindi quello che ha fatto di buono non conta”. Tanto ormai, a chi le ha viste coi propri occhi, quelle meraviglie sono rimaste scolpite, e quindi tanto vale godere nel ripensarci.

E poi c’è l’aspetto dell’umanità, che Pastonesi valorizza facendo intervenire nel racconto decine di persone, dai compagni di squadra ai membri degli staff, dall’infanzia fino alla fine. Le loro testimonianze ricche di aneddoti restituiscono un’immagine di Pantani sfaccettata e interessante. Perché non era affatto un nerd dello sport, una macchina senz’anima nata solo per vincere, né un personaggio scialbo e senza carattere. E quindi vengono fuori il Pantani che adora mangiare, che se può si alza tardi la mattina, che tifa per il Milan, che va a ballare tanto che Christina la conosce quando fa la cubista, che se lo cerchi basta che vai al solito chiosco di piadine e di sicuro lui prima o poi passerà. Metodico e serissimo nell’allenamento e nella cura della forma, ma in un modo tutto suo, molto basato sull’ascolto dei messaggi del proprio corpo, e molto poco sulle metodologie “scientifiche”. E nel dipingere la persona, è centrale la Romagna. Il suo è un attaccamento alla propria terra tanto viscerale quanto naturale e spontaneo. Se ne va coi compagni di squadra più fidati a pescare in barca. Se vai a trovarlo, è impossibile tirare fuori il portafoglio per pagare qualcosa, e accetta di essere ricambiato solo quando è lontano da casa. La Mercatone Uno dei suoi trionfi è praticamente una nazionale romagnola. Conosce a memoria ogni centimetro di asfalto della regione, suo unico terreno d’allenamento, esce ad allenarsi senza borraccia perché sa esattamente dove sono tutte le fontanelle, in tutta la regione. Se gli viene fame entra coi compagni in qualche bottega, appoggiando le bici fuori. Non prova quasi mai le grandi salite che troverà al Giro, gli basta il monte Carpegna, se sul Carpegna si sente bene, è a posto così.

Quella tra Pantani e tutta la gente che lo ha amato è stata un’alchimia di quelle rare, una cosa talmente bella che probabilmente non avrebbe potuto durare troppo. Di sicuro, è durata troppo poco però. E questa alchimia nasceva proprio dalla somma di tutti gli elementi che Pastonesi racconta: certamente dalla forza straordinaria in quanto atleta, dalla spettacolarità, dalla spregiudicatezza tattica. Senza dubbio anche dalla voglia di veder riscattare un atleta tanto sfortunato, prima con le cadute, poi con l’ombra del doping. Ma un ruolo importante ce l’ha avuto proprio quell’umanità, che traspariva anche agli occhi di chi non lo conosceva, molto profonda e altrettanto fragile, quel suo essere diverso dai robot da laboratorio che erano tutti i suoi principali rivali. Cazzo, se ci ha fatto sognare. E se ci ha fatto piangere.

Matthias Moretti

Categoria: Recensioni

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