Sulle rive dell’estuario del Clyde si consuma la rivalità calcistica per eccellenza, quella che sublima tutte le caratteristiche di un derby. Le contiene tutte, e le moltiplica tra loro. Cattolici contro protestanti. Irlandesi contro lealisti britannici. Socialisti contro fascisti. Proletari contro borghesi, anche se ovviamente lo scorrere dei decenni ha fatto sì che quest’ultima frattura non sia più del tutto netta. Sono le uniche due squadre di peso della città, e in realtà dell’intero campionato. Su 122 edizioni disputate i Rangers hanno 54 titoli e 30 secondi posti, il Celtic 49 titoli e 31 secondi posti. L’Old Firm quindi è anche, praticamente ogni anno, la sfida-scudetto. Nessuno degli altri grandi derby del mondo somma tutti questi elementi. A Belgrado, l’appartenenza nazionale e religiosa accomuna le due fazioni. A Buenos Aires la rivalità si basa più che altro sull’appartenenza di quartiere, e poi non ci sono solo due squadre importanti, ma molte di più, così come a Londra o Rio de Janeiro. Tutti gli altri derby europei poi, per quanto affascinanti, si attestano su un livello di tensione comunque decisamente inferiore.
E Glasgow è anche città che si presta ad accogliere una rivalità così unica. Se Edimburgo è la città del potere politico, un tempo popolata di nobiltà e servitù, e oggi ottima vetrina turistica, Glasgow è città mercantile e industriale, di borghesi e proletari, di contrasti vivi e quotidiani. Affaccia sulla costa occidentale, cosa che negli ultimi secoli ha fatto sì che si riempisse d’irlandesi, che da buoni emigranti andarono a formare una parte corposa della classe operaia cittadina. Con la nascita del football, inevitabile che si ritrovasse a essere una città spaccata in due, dove l’appartenenza ha un valore totalizzante, che chiama per sua natura alla militanza, se non al fanatismo. Un’appartenenza passata attraverso la rivolta irlandese del 1916 e la guerra civile in Irlanda del Nord. E il Celtic baluardo irlandese in casa della Regina. Tutte cose tutt’altro che sopite, memoria profonda che si tramanda, ovviamente sia da una parte che dall’altra del Clyde. Già, perché anche a livello geografico la distinzione è totale: Celtic Park è a nord-est della città, sopra il fiume, Ibrox a sud-ovest.
È una bella città, meglio di come uno se la immaginerebbe. La vecchia architettura classicamente britannica, a grandi mattoni ocra per i palazzi borghesi e rosso scuro per quelli proletari, si accompagna a un fiorire di edifici moderni. Anche la Scozia non è più quella di Trainspotting (girato in parte anche a Glasgow), la disoccupazione è poco sopra il 4%, si investe, si costruisce molto, si trova lavoro e infatti c’è molta immigrazione, il vecchio e suggestivo quartiere di Merchant City sta vivendo una forte gentrificazione. Certo, il capitalismo non regala mai nulla, e lascia sempre indietro qualcuno: le statistiche sui morti di overdose sono sempre tra le più alte d’Europa e si vedono diversi ragazzi giovani che vivono per strada. Ma il contesto è abbastanza diverso dallo stereotipo anni ’90 di una Scozia depressa e grigia. La grande quantità di parchi pubblici contribuisce a una sensazione di vivibilità. Il pub è un elemento culturale. La sensazione è che sia una di quelle città da cui se ci sei nato non te ne vorresti andare mai. E il calcio in buona parte, anche qui, c’entra.
Un malato di calcio, pensando a Glasgow, non può esimersi dallo schierarsi. Andare a Celtic Park era una cosa da fare prima o poi. La pazzesca qualificazione nel girone di Europa League, tutto merito del Rosenborg, dà la spinta finale: mezzo miracolo per trovare i biglietti per i sedicesimi di finale, avversario un difficile Valencia, ma all’andata in casa si spera almeno di tenerla aperta. Celtic Park si staglia parecchio nel panorama, con l’enorme scritta PARADISE che prende tutto l’esterno della curva, e ovunque intorno allo stadio tributi ai Lisbon Lions, che nel ’67 portarono a casa la Coppa dei Campioni, da Lisbona appunto, 2-1 contro l’Inter. Allo stadio non si bevono alcolici e non si fuma, ma oltrepassato lo stadio si trovano sia i pub degli ultras – strapieni e in ogni caso avvolti da una “sacralità” che non va disturbata – che quelli dei tifosi. Appena entrati, il colpo d’occhio del campo è idealtipico: le tribune verdi con la scritta in bianco, il prato verde come solo a queste latitudini sa essere, gli spalti che pian piano si riempiono e un mix di emozioni caratteristico di quando hai dodici anni. Il Celtic fortunatamente gioca con la prima maglia, anche quella un idealtipo da Subbuteo.
Unica concessione al “calcio moderno” un po’ di giochi di luce e qualche canzone tamarra dagli altoparlanti, per il resto non ci sono grandi paillettes e orpelli inutili, anzi per la verità anche le scelte musicali vertono perlopiù su cose tipiche irlandesi. Pochi minuti al fischio d’inizio e arriva You’ll never walk alone, esattamente come te l’aspettavi, ma ciò non toglie la bellezza. Anzi, certe cose probabilmente devono proprio essere sempre uguali per avere senso. Cantata non a squarciagola, ma con intonazione, con serietà. Un tappeto di sciarpe tese. La Green Brigade occupa compattamente il proprio angolo della Lisbon Lions Stand, un altro gruppo, i Bhoys, sta invece al primo anello della Jock Stein Stand, la curva opposta. La Green Brigade fa il solito sfoggio di sano internazionalismo, con le bandiere irlandesi, palestinesi, basche, catalane e della Repubblica Spagnola (si gioca pur sempre contro il Valencia), per poi darsi al suo tifo caratterizzato da molti tratti “mediterranei”: cori ritmati, tamburo, saltare molto. Belli i momenti in cui, sui cori più tradizionali, si riesce a coinvolgere tutto lo stadio, ma purtroppo l’andamento della partita non aiuterà in questo.
Già, perché la squadra è bella scarsa, e dopo un primo quarto d’ora promettente il Valencia prende le misure, si dispone bene in campo e dà la sensazione di non andare mai in difficoltà. Il Celtic, contrariamente a una struttura fisica della squadra che suggerirebbe lanci lunghi, sponde e inserimenti, e picchiare come fabbri, gioca invece un calcio di fraseggi e possesso palla senza esserne evidentemente in grado. Minuti e minuti di possesso palla sterile per poi, prima o dopo, perdere palla. Il Valencia piazza due zampate a cavallo dei due tempi e porta a casa la qualificazione senza patemi e meritatamente. I Bhoys in green ci mettono tutto il cuore, l’atteggiamento dei giocatori è encomiabile ma non ce la possono proprio fare. Peccato, il ruggito di Celtic Park mi sarebbe piaciuto sentirlo di più. Ma il Valencia evidentemente vincerebbe con gran facilità il campionato scozzese. Il tifo va invece avanti bene, l’angolo della Green Brigade dura 90 minuti, e saltano fuori anche le perle: nel primo tempo Fields of Athenry, nel secondo Roll of honour, la canzone dedicata agli hunger strikers. La memoria collettiva che si palesa fiera, qualunque sia il risultato del momento. Le parole arrivano forti dalla Green Brigade, ma è l’intero stadio, a macchia di leopardo, a unirsi. La signora ultrasessantenne accanto a me le canta piano, tra sé, come se in qualche modo fosse anche una sua questione privata.
Essere campioni di Scozia non vale molto evidentemente, se ragioniamo di calcio. Ma essere del Celtic (e avere un avversario come i Rangers da odiare) dev’essere davvero straordinario.
Matthias Moretti