Negli scorsi giorni, più precisamente dal 13 al 20 maggio, a Tuffy, in Australia si è svolto il campionato mondiale di rafting. Ciò che ha reso questa edizione di particolare interesse per tutti coloro, noi compresi, che non hanno grande dimestichezza con questo sport è stata la partecipazione di una squadra colombiana, grazie a un invito speciale dalla International Rafting Federation (IRF), denominata “Remando por la paz”, composta da otto persone di cui ben cinque sono ex guerriglieri delle FARC, mentre gli altri tre (tra cui l’unica donna del contingente) sono contadini provenienti dal villaggio di San Vicente del Caguán, lo stesso territorio che per anni è stata la base dei guerriglieri, a cui è toccato rappresentare ufficialmente il Paese latino-americano.
Nonostante non abbiano partecipato ufficialmente, ma solo da “ospiti fuori concorso”, alla competizione (che per la cronaca ha visto la vittoria dell’equipaggio brasiliano su quello russo, con quello neozelandese a completare il podio) e nonostante fosse la prima partecipazione, la spedizione colombiana si è ben comportata, arrivando tra le migliori sedici, su quarantanove partecipanti, in tre delle quattro prove del mondiale (lo sprint, la prova di velocità e nel “testa a testa”, una gara a punti in cui si affrontano due squadre per volta).
La spedizione ha ricevuto anche un riconoscimento speciale dall’IRF per la propria presenza e l’importante «valore simbolico di questa iniziativa di pace». Proprio a tal proposito, durante la loro trasferta intercontinentale, i colombiani hanno visitato altre città australiane, come ad esempio Brisbane, con delle comunità colombiane, confrontandosi coi membri sul “nuovo corso” della Colombia.
Gli ex combattenti facevano parte della colonna “Teófilo Forero” e il loro campo di operazione era il dipartimento di Caquetà, lungo il fiume Pato, una regione emblematica nella storia del cinquantennale conflitto civile che ha attanagliato la Colombia e che ha visto le FARC (insieme ad altre formazioni come ad esempio l’ELN o il M19) farsi carico delle istanze e dei bisogni delle moltitudini di contadini e indigenti sfruttati dalla longa manus delle multinazionali, e opporsi fieramente tanto ai potenti cartelli dei narcotrafficanti, quanto agli squadroni paramilitari, emanazione (diretta o indiretta) dello Stato, uno dei più ferocemente anticomunisti dell’area e allineato acriticamente ai dettami di Washington e del verbo neo-liberista. Fino a quando, dopo ben cinquantadue anni dopo l’inizio della guerriglia, nel 2016, ha avuto inizio il processo di pace che prevedeva il reinserimento nella vita civile dei guerriglieri, all’interno del quale, come abbiamo avuto modo di documentare circa un anno fa col calcio, lo sport gioca un ruolo fondamentale.
Infatti, il progetto “Rafting for peace” che ha portato alla realizzazione di questa squadra, e in cui già precedentemente aveva visto la luce un progetto turistico con dei tour di rafting lungo il fiume Pato, ha avuto inizio il 27 febbraio, col sostegno di vari ministeri colombiani (quello del Turismo, dell’Economia e del Commercio, oltre che dal Coldeportes, il dipartimento sportivo colombiano che attraverso il suo nuovo direttore, Ernesto Lucena, il giorno 8 maggio aveva simbolicamente donato una bandiera della Colombia alla squadra, affinché potessero «mostrare un altro volto della Colombia, ricostruito attraverso lo sport»), ma anche dell’ONU che attraverso Carlos Ruiz-Massieu, il capo della delegazione di osservatori, verificava di continuo l’evoluzione, ha definito questo come l’esempio più riuscito di reinserimento al termine del quale i componenti della squadra dovrebbero lavorare come guide turistiche, avendo già ricevuto dall’IRF i certificati necessari.
Sebbene questa storia appaia come quel lieto fine che (quasi) tutti speravano o si aspettavano per il conflitto colombiano, a maggior ragione potendo contare sullo sport come collante, permangono le zone d’ombra in un Paese in cui il referendum fu sorprendentemente vinto dalla fazione contraria agli accordi di pace e che rimane essenzialmente diviso tra una Colombia rurale e una urbana. Giorno dopo giorno, si fa sempre più strada l’incubo che questo processo di pace sia l’ennesima dimostrazione disseminata lungo la storia di tutti e cinque i continenti, che quando un esercito popolare è disposto a deporre le armi, questo debba subire dei drastici ridimensionamenti nelle rivendicazioni (per non dire tragiche prese in giro) da parte del più pragmatico interlocutore. Per questo, la fa da padrone lo spettro di una risoluzione diplomatica del conflitto che appaia quasi unilaterale e che porti a una riconciliazione sospinta dall’alto, che di fatto vorrebbe dire “inglobamento” degli oppositori nel neo-liberismo dello Stato colombiano, e in cui il passato (con tutto il suo carico di conflitto, rivendicazioni e successi, per quanto parziali, dei ceti subalterni) possa essere cancellato con un colpo di spugna. Anche perché più di qualche settore della società colombiana vede questi accordi come una dimostrazione di debolezza da parte delle FARC, stremate da tanti anni di lotta armata e con un carente ricambio sia di quadri che di giovani e perciò pronte ad accettare anche accordi al ribasso. Tant’è che al loro interno è nata una fazione dissidente che ha rigettato gli accordi e prosegue insieme all’ELN e l’EPL; non è un caso infatti se quello che per anni è stato il comandante dei cinque guerriglieri convertitisi al rafting, Hernán Dario Velásquez, noto come “El Paisa”, abbia scelto di continuare la guerriglia in clandestinità, così come ulteriori dimostrazioni provengono anche dall’atteggiamento tenuto nei confronti del Venezuela.
Secondo alcune ricerche, pare che siano stati disattesi dallo Stato colombiano addirittura il 96% dei punti programmatici della pace tra esso stesso e i guerriglieri, così come non sono isolati i casi di territori rurali in cui dopo la smobilitazione delle FARC abbiano fatto il proprio ingresso gli squadroni paramilitari col loro portato di violenza, culminato nell’assassinio di diversi leader sindacali (in totale sono quasi centocinquanta contando anche gli attivisti per i diritti umani), e con la complicità tacita dello Stato, l’ennesima dimostrazione di come se da un lato lo sport può unire e creare ponti, dall’altro sotto regìe non limpide possa continuare a fungere da deterrente e specchietto per le allodole.
Giuseppe Ranieri