Dopo l’exploit mediatico dei mondiali francesi di quest’estate, il calcio femminile sembrava essere ritornato, se non proprio nell’oblio, quantomeno al di fuori dei radar degli appassionati di sport, che ogni tanto ricevono qualche timido input a riguardo come ad esempio le attenzioni sul big-match di domenica scorsa tra Milan e Juventus, capitato fortunosamente durante una domenica di pausa del campionato maschile.
Ma al di là del contesto italiano, sempre abbastanza tardivo nel recepire i nuovi fenomeni non solo nel calcio e nello sport, altri contesti sono stati ben più ricettivi nel mettere a nudo tutte le contraddizioni di un sistema come quello del calcio femminile che, sebbene sia riuscito ad accattivare una discreta quantità di pubblico in tutto il mondo, viene ancora trattato con tutti i crismi di uno sport dilettantistico, come dimostra il fatto che le selezioni partecipanti al mondiale francesi si sono dovute spartire una cifra inferiore ai 30 milioni di euro a fronte dei 400 ripartiti tra le nazionali maschili che hanno partecipato al Mondiale di Russia del 2018 e se qualche squadra isolata (come ad esempio l’Ajax o le nazionali danese e australiana) hanno concordato parità di trattamento tra calciatrici e calciatori, la maggioranza dei casi vede ancora una certa ritrosia nel fare questo passo.
Così ad esempio lo scorso week end ci siamo ritrovati di fronte a uno sciopero, coordinato dai sindacati AFE (Asociación de Futbolistas Españoles, guidato da David Aganzo), UGT e Futbolistas On, che ha completamente bloccato il massimo campionato in Spagna, la Prima Iberdrola con gli otto campi nei quali si sarebbero dovute svolgere le partite del nono turno completamente deserti.
Non si può certo parlare di fulmine a ciel sereno, visto che questa decisione è stata presa a seguito di una trattativa con le società calcistiche e la federazione spagnola (la RFEF) che si protrae dall’ottobre dello scorso anno, attraverso una ventina di incontri rivelatisi infruttuosi.
I punti cruciali delle rivendicazioni delle calciatrici sono quelle sulla parità dello stipendio minimo, dell’innalzamento di quello per i contratti part-time, i permessi di maternità e la totale copertura assicurativa per quel che riguarda gli infortuni, argomenti che a ben vedere potrebbero riguardare le donne (e non solo) di ogni categoria lavorativa, alle prese con lo sfruttamento, la precarietà e le discriminazioni di genere, come abbiamo potuto vedere anche in questa nuova stagione di rivendicazioni per il movimento femminista mondiale.
«Non si tratta solo di soldi, va molto oltre – afferma Ainhoa Tirapu dell'Athletic Bilbao, dell’AFE –, abbiamo dovuto intraprendere azioni drastiche perché è il momento del calcio femminile. Dobbiamo lottare per i nostri diritti. Non stiamo combattendo per noi stesse, ma per le generazioni future». «L'ACFF – continua Ainhoa Tirapu – ha raccomandato ai club di firmare contratti part-time, ma non pensiamo che sia sufficiente. Ci alleniamo quattro giorni alla settimana, oltre alle partite, ai viaggi per le trasferte. Sono ben oltre le venti ore a settimana. E questo senza contare l’attenzione all’alimentazione o per il riposo, che devono essere per ventiquattr’ore al giorno per poter essere delle vere calciatrici […]. Una calciatrice con un contratto part-time riceve contributi solo al 50%. Immaginate quando andrà in pensione e vedrà che i dieci o quindici anni della sua carriera calcistica contano solo come cinque o sette anni di lavoro. La questione dei contributi è cruciale per tutto ciò che ne scaturisce, dalla disoccupazione al risarcimento per gli infortuni gravi».
A ciò va aggiunta la vaghezza dei bilanci dei club con cui si approcciano le dirigenze per tutto quello che riguarda gli sponsor, i finanziamenti e i diritti televisivi: queste continuano a sostenere il mantra secondo cui il calcio femminile sarebbe uno “sport a perdere”.
Non sorprende quindi che siano solo determinate società a chiamarsi fuori da questa “serrata padronale”, quelle che hanno maggiormente da perderci se lo show non dovesse andare avanti, ad esempio il Barcellona, uno dei pochi club in grado di finanziare uno staff professionale e vicino alle ragioni delle calciatrici (insieme all’Atlethic Bilbao e al Tacon, la squadra rilevata quest’estate da Florentino Perez per farla diventare dalla prossima stagione a tutti gli effetti il Real Madrid femminile) ha pubblicato venerdì una lettera in cui «fa appello alla responsabilità di tutti gli attori che contribuiscono al calcio femminile a trovare una comprensione su un argomento che è capitale per il futuro della competizione», rammaricandosi inoltre che si debba arrivare al punto dello sciopero per richiedere i diritti di base che ogni atleta professionista dovrebbe vedere riconosciuti.
Ma come accade sempre, l’unico modo per sbloccare l’impasse di questo gioco delle parti, resta sempre l’azione dimostrativa e il blocco della produzione, in questo caso lo sciopero. Infatti, quasi come per miracolo, già all’indomani della protesta, sembra ci siano state delle concessioni che, seppur minime, hanno accolto la prima parte delle rivendicazioni, garantendo così il prosieguo del campionato, ma anche quello delle trattative, vedendo una parziale accoglienza delle soglie dei salari minimi sia part-time (per 4.000 euro annui) che full-time, grazie anche a una ridiscussione dei diritti televisivi che dovrebbe garantire buona parte dell’aumento di introiti per finanziare queste migliorie.
D’altronde un’altra dimostrazione forte di questa temperie globale l’abbiamo avuta in Brasile, durante l’incontro tra Corinthians e Sao Paolo che si sarebbe concluso per tre reti a zero a favore delle prime, ma che secondo il tabellone e le calciatrici (in concorso con la Federazione Calcistica Paulista) si è conclusa per 2,4 a 0, in virtù del fatto che a parità di mansione le donne guadagnano circa il 20% in meno rispetto agli uomini, come avevamo segnalato anche noi parlando della stella brasiliana Marta Silva durante gli scorsi mondiali.
In ogni caso, quello che sembra palese è che proprio il calcio femminile potrà esacerbare quelle contraddizioni del calcio nell’epoca della sua finanziarizzazione, in cui qualsiasi fattore non produca profitti sembrerebbe destinato a scomparire, ma la realizzazione di uno status di professioniste, per un meccanismo che ancora non garantisce gli stessi indotti economici del calcio maschile (anche per via della ritrosia del suo “pubblico storico”) potrebbe far saltare il banco prima che le televisioni facciano da mediatrici e ripianino tutte le crepe venutesi a creare coi loro soldi.
Giuseppe Ranieri