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La premessa di fondo è che se non ci ritrovassimo in una situazione tanto straordinaria come quella attuale non avrei mai visto questo film e col senno del poi, posso affermare che la mia vita non ne avrebbe risentito affatto. Ciò non per mancanza di stima nei confronti di Francesco Lettieri, di cui anzi devo ammettere che, nonostante difficilmente riesca ad appassionarmi a prodotti musicali contemporanei, ho davvero apprezzato i suoi videoclip per Liberato e infatti proprio la colonna sonora, pur essendo sostanzialmente diversa da quella che ci si aspetterebbe per un film del genere, è la cosa che mi ha convinto maggiormente. Il mio scetticismo era dovuto al fatto che sia già molto difficile per un ultras descrivere quello che siamo, figurarsi per chi non lo è, parafrasando gli Erode “se non sei uno di noi, non lo sarai mai”, e non riuscirai mai a raccontare gli ultras nella loro profondità. E a quanto pare, anche i “contro-trailer” organizzati dagli ultras napoletani a suon di scritte sui muri, sembrano avallare questa teoria “tecnocratica”, così come l’allontanamento dalla curva di chi si è prestato a fare la comparsa (così sembrerebbe, comunque non membri dei gruppi ultras). Certo, non si può dire che gli ultras partenopei non abbiano le loro valide ragioni e comprendo che a chi negli anni si è esposto e continua ad esporsi mettendo a repentaglio la propria incolumità e la propria fedina penale, possano davvero girare i coglioni nel trovare le immagini di cortei e di altre “situazioni ultras” prese liberamente dal web per ritrovarsele sbattute davanti gli occhi a corollario di quello che chiariamolo una volta per tutte non è il tentativo di spiegare e raccontare gli ultras dal loro interno, bensì un prodotto commerciale, come testimonia anche la squallida vendita di adesivi e altro materiale affine alla pellicola avviata da qualche sciacallo, così come i disinvolti richiami a diversi gruppi di primo piano tramite affinità grafiche o il canto di un inno storico, senza contare i velati, ma percepibili, richiami alla vicenda di Ciro Esposito, nonostante le smentite di rito del regista, una cosa quest’ultima davvero di dubbio gusto.

 

Venendo al lato squisitamente tecnico, tralasciando per un attimo la questione ultras (per quanto possa essere possibile per un film che per l’appunto si intitola “Ultras”) che come abbiamo visto rappresenta il tasto dolente, tutto sommato l’opera non sarebbe nemmeno malaccio, anzi tra i tanti prodotti televisivi ambientati nella metropoli partenopea (anzi a dirla tutta nel suo hinterland) farebbe anche la sua figura. Non si può certo affermare che la trama brilli per originalità (ad esempio la scena del “Mohicano” con Terry alla trattoria rappresenta l’apoteosi della banalità), una sorta di “West Side Story” in salsa partenopea che in un’ipotetica scala di valori potrebbe perfettamente rappresentare una via di mezzo tra “Gomorra” e “Un posto al sole”, con la differenza che buona parte dei personaggi fa ampio sfoggio di Sergio Tacchini e Lyle&Scott, due delle griffe più in voga tra gli ultras, l’unica concessione ai cliché curvaioli rispetto alla napoletanità che trasuda da questa pellicola – il che non è necessariamente un male, anzi a dimostrazione di come ormai la forma abbia preso il sopravvento sulla sostanza. Certo, gli strafalcioni ci sono, e non sono pochi, perché se fai un film sugli ultras e parli dei bergamaschi come accoltellatori, ti mancano proprio le basi; il finale, in cui la fiction trionfa definitivamente su ogni velleità di veridicità, è a dir poco pulp e difficilmente immaginabile soprattutto ai giorni d’oggi ma ha almeno il merito di rivelare una volta ogni tanto l’infamia di cui sono capaci le guardie in cui si alternano senza soluzione di continuità riferimenti alla filmografia d’oltremanica come la scena del viaggio nei camioncini, con quella nostrana, ma ci sono anche delle parti che, nonostante qualcuno storcerà il naso, possono risultare abbastanza verosimili. Come ad esempio la sortita sotto il settore ospiti verso i bresciani: sebbene possa sembrare inimmaginabile in un palcoscenico come la Serie A, chi ha calcato i gradoni delle categorie inferiori, soprattutto nel Sud, sa quanto potesse essere usuale trovarsi gli ultras di casa che entrano nel settore ospiti tramite un cancello apertosi… “per magia”. O le scene del ritorno da Firenze sia nel bus (forse un po’ troppo macchiettistiche, ma verosimili) che dopo, che forse regalano uno dei pochi momenti autentici della vicenda ultras quando dimostrano che le curve non sono esattamente una palestra di democrazia e vige la legge del più forte, del capobranco, giusta o sbagliata che sia.

Tutto finito/ tutto finto? Neanche per sogno! C’è una cosa che mi ha fatto particolarmente riflettere e cioè che nonostante la trama faccia acqua da tutte le parti (e anche quando magari sembra avere qualche spunto interessante come l’esaurimento fisiologico della funzione del gruppo unico e tradizionale e lo scontro tra generazioni, vengono appiattiti e riportati sui binari romanzati del “diffidati contro non diffidati”) abbia trovato i dialoghi molto pertinenti e aderenti alla realtà. Pensandoci bene sembra quasi un ossimoro, ma invece denota quanto i concetti di “mentalità”, “gruppo”, “onorare i diffidati” e “conflitto” buttati a casaccio, quasi come gli ingredienti che vanno a comporre un‘insalata, senza generare nessuna emozione neanche in chi ha passato buona parte della propria vita a difendere e provare a tramandare quei valori, nel corso di questi anni siano stati totalmente inflazionati, stereotipati e ripetuti a menadito più che interiorizzati dai vari frequentatori delle curve (con poche lodevoli eccezioni) che hanno preferito imparare a memoria lo spartito e timbrare il cartellino, piuttosto che spingersi oltre non solo nell’azione, ma anche nel pensiero come pure imporrebbe l’etimologia del termine ultras. Se sia colpa di chi non li ha saputi trasmettere o di chi non è stato in grado di recepirli dovrebbe essere argomento di discussione interna in ogni curva… se solo avessimo il senso dell’autocritica. Invece la scena che ci descrive meglio di qualunque altra quello che siamo in questo periodo è quella del selfie del “chiattone” con la torcia, usata da Lettieri come espediente per dare un’accelerata alla trama, ma che invece contiene un valore intrinseco, l’emblema di quella ricerca di visibilità e di apparenza da cui siamo attanagliati in maniera ormai quasi irreversibile, con buona pace dei propugnatori dell’“essere, esserci e non apparire” ormai degradato a semplice slogan come qualsiasi altro da stampare sulle t-shirt. D’altronde, se anche le curve ormai veicolano messaggi qualunquisti e massificati e in alcuni casi offrono autonarrazioni al limite della farsa, come potremmo pretendere che sappia farlo uno che non ha quel vissuto? Non parlerei di questo film come un’occasione persa, in ogni caso non lo è per gli addetti ai lavori a cui questa pellicola nulla dà e nulla toglie, e non mi sento nemmeno di definirlo una delusione, perché si resta delusi solo quando si coltivano delle aspettative e non era questo il caso. “Ultras” può rappresentare uno specchio deformato, probabilmente anche rotto in alcune parti, in cui con un po’ di scaltrezza potremmo riuscire a vederci in alcuni frammenti, ma siamo sicuri che riusciremo a cogliere l’immagine giusta e che questa ci piaccia?

Giuseppe Ranieri

 

Categoria: Recensioni

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