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Cosa succede quando i ribelli diventano una forza stabilizzatrice, quando il contropotere scende a patti col potere per ritagliarsi i propri spazi? C’è ancora la possibilità e l’opportunità di definirsi antisistemici? Suvvia, sono sicuro che nella nostra militanza politica o di curva questo tipo di interrogativi siano passati almeno per una volta nella mente di ognuno di noi. Ecco, probabilmente Puerta 7 è ciò che si avvicina di più a una tra le possibili risposte a tutti questi dubbi.

Ero molto curioso di vedere questa serie, sia per i pregevoli lavori realizzati in questi ultimi anni dal cinema sudamericano e sia perché affascinato dal tema delle barras argentine, che per molti aspetti rappresentano un alter ego rispetto all’impostazione “italo-centrica” dei classici gruppi ultras europei, già da prima che diverse curve del Belpaese ne scimmiottassero i cori o l’impostazione in curva. Certo, le differenze sono a tratti enormi, ma in fin dei conti esse riflettono tout-court quelle tra i due paesi.

 

Al centro della vicenda c’è il microcosmo che gira intorno a una formazione di Buenos Aires, il Ferroviarios Fútbol Club (la cui fonte di ispirazione, sicuramente né il Boca né il River, è tutt’ora oggetto di discussione, secondo qualcuno si tratterebbe del Ferrocaril Oeste o addirittura dell’Independiente, mentre lo stadio in cui sono ambientate diverse scene è senza dubbio quello dell’Huracan) in lotta per il titolo nazionale, ma il calcio giocato, nonostante la stagione esaltante della squadra, ha un ruolo secondario. A tenere banco infatti sono le commistioni intrecciate tra la dirigenza, la tifoseria organizzata, la criminalità e la politica. Nello specifico i rapporti tra la società e la barra capeggiata da Hector “Lomito” Baldini, una sorta di “ras” di quartiere che ha saputo capitalizzare al massimo nel vero senso della parola la sua militanza sulla gradinata anche (e soprattutto) con attività non sempre legali, e senza il cui parere non si muove una foglia neanche in seno alla società, finanche le scelte di formazione e gli acquisti; dotato di una ubris che farebbe impallidire gli eroi mitologici e con un unico punto debole, la famiglia. La situazione cambia quando la società nomina Diana, una donna granitica, ma allo stesso tempo sensibile e impegnata socialmente, a capo della sicurezza all’interno dello stadio. La donna decide di dichiarare una guerra alla banda del “Lomito” senza esclusione di colpi, un po’ come sta cominciando ad accadere anche qui in Italia dove il dibattito sulla responsabilità delle società per quel che riguarda la sicurezza è ben avviato con alcuni casi pilota. Per farlo può contare sull’appoggio di Cardozo, un ex poliziotto che sembra uscito direttamente dal periodo della dittatura dei colonnelli e che non lesina certo l’utilizzo della violenza e dei colpi bassi, ma talvolta da martello gli tocca tramutarsi in incudine.

Il grande merito di questa serie è quello di non fare una manicheistica quanto ingenua distinzione tra il bene e il male, anzi i punti in cui essi vanno a fondersi per darci un quadro complesso ma al contempo scorrevole sono molteplici, proprio come accade nella vita in quel barrio, vissuto come fatto sociale totale e che è la grande cornice, nonché spirito guida di tutto lo sceneggiato in cui - mi sia consentita la citazione a metà tra il sacro e il profano - non ci si può approcciare giudicando “da buon borghese”, perché si rischierebbe di scambiare per retorica quella che alla fine è una vera e propria appartenenza di classe, avamposto di disperazione e allo stesso tempo trampolino per le rivendicazioni sociali tanto individuali quanto collettive. Cosa tra l’altro neanche tanto distante (ovviamente coi dovuti distinguo dettati dal contesto) anche nei quartieri della più difficile periferia nostrana.

La stessa complessità d’altro canto la si scorge anche nella varietà di personaggi, molti dei quali, quasi come quelle pietre magiche con cui giocavamo da bambini, cambiano colore a seconda dei riflessi. Da un lato sembra quasi che consapevolmente il regista abbia voluto realizzare una sorta di catalogo umano progressivo di quella che, attraverso varie declinazioni scandite dalle età differenti, può essere una “carriera” in un gruppo: dal timido e giovanissimo Mario che nonostante ciò sorregge il peso della sua disastrata famiglia a Fabian, criminale consumato, ma con un codice d’onore che lo porta ad avere a cuore i poveri del suo quartiere e a odiare i ricchi e gli speculatori, compresi coloro che vogliono inondarlo di droga, incarnando pienamente quello spirito di presidio e difesa del territorio che tanto in curva quanto nei collettivi dovrebbe essere l’abc da cui partire; ma prima di tutto è innamorato perso dei “Ferroviarios”. Dal già citato “Lomito” passato ormai al “lato oscuro della forza” lucrando a tal punto da rendere un tutt’uno la militanza sulle gradinate e le attività criminali e creandosi un esercito di pretoriani pronti a tutto per lui facendoli sentire importanti e parti di una comunità sin da ragazzini, fino ad arrivare a Santiago, ex componente della barra, diventato tesoriere senza scrupoli del club e sempre abile a tenere un piede in due staffe. Stesso discorso vale per il presidente del club, vaso di coccio tra vasi di bronzo, una sorta di Don Abbondio della pampa, sospeso tra un immobilismo degno del gattopardo e quella “sindrome di Stoccolma” che lo porta a non voler prendere realmente le distanze dalla banda di “Lomito”, a cui è consentito di fare il bello e il cattivo tempo sugli spalti.

Sicuramente non si tratta di un documentario e, pur non avendo una conoscenza totale delle dinamiche delle tifoserie argentine, non ci vuole molto a capire che qualche passaggio è un po’ troppo forzato, ma pur trattandosi di fiction, con tanto di immancabile quanto stucchevole love-story, è innegabile che ci sia un’aderenza di fondo che dalle nostre parti ancora sogniamo. E non è un’esagerazione, perché pur non volendo fare di tutta l’erba un fascio, di capi ultras che girano sui macchinoni con tanto di autisti, che tentano la scalata in società, influenzando le campagne acquisti o che possono produrre e vendere il merchandising ufficiale della squadra e ottengono centinaia su centinaia di biglietti gratuiti, così come di persone che fanno carriera in curva prima ancora di metterci piede, per “meriti extra-calcistici” qualcosina dovremmo saperne, ma non per questo se si ha il coraggio di vedersi allo specchio per quello che siamo diventati, potremmo scoprirci meno brutti e macchiettistici di quanto temiamo, e ciò lo dobbiamo anche a una serie come questa.

Giuseppe Ranieri

Categoria: Recensioni

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