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Daniele De Rossi abita dove lavoro io. Lo incrocio, lo guardo, lo seguo con spietata riverenza e un dolcissimo stalkeraggio. Sono talmente impietrito di fronte a lui che in tanti anni non ho ancora avuto il coraggio di rivolgergli la parola e chiedergli un banale selfie, o un po' più romantico autografo. Diversamente i miei colleghi fanno incetta di sorrisoni e godono di quella gentilezza cavalleresca di cui l’uomo De Rossi è ampiamente dotato.

Forse vederlo mi ricorda il mio passato da calciatore nelle giovanili, mi ricorda i derby giocati e vinti, mi ricorda il suo lungo caschetto biondo, il nove sulle spalle, la sua tecnica, il suo ruolo di attaccante. Mi ricorda un'altra èra di felicità per me, e forse anche per lui. Una cosa che mi ricordo con molta precisione è che in campo era coattello, tignoso, c’era qualcosa di indefinito, sembrava vagasse furente senza scopo, sportellava con tutti.

 

Credo, anzi ne sono certo, abbia fatto molta panca da giovanissimo e pochissimi goal. Ad esser onesto, nessuno avrebbe scommesso un euro su quel ragazzone, figlio del bravissimo allenatore Alberto De Rossi. Ma il calcio è questo, lui qualche metro dietro dal suo ruolo abituale diventa campione del mondo, io qualche centimetro in meno di statura e sono diventato un operaio. Qui non c’è solo il calcio, qui c’è la vita.

Quando è uscito il libro di Daniele Manusia, che già avevo apprezzato sul blog “L’ultimo uomo”, era il 4 giugno, che per chi è romano significa il giorno della liberazione di Roma dall’occupazione nazifascista che per nove mesi aveva comandato e atterrito la popolazione della città; notando questa coincidenza vado allegro a comprare il libro proprio sotto casa di Daniele De Rossi , e tac, altra coincidenza, lo compro da Odradek che porta nel suo stemma uno dei simboli partigiani, quel chiodo a quattro punte che tanto ha fatto dannare le autoblindo naziste.

Di coincidenza in coincidenza (se vogliamo dirla tutta mi chiamo Daniele, sto per compare un libro su un Daniele, scritto da un altro Daniele) mi leggo il libro che avevo abbondantemente agognato.

Già il titolo racchiude in sé tutta l’opera, ne cela il portato, ne custodisce il sentimento di reciprocità che nella vita è molto se non tutto.

Se ami hai bisogno necessario di essere corrisposto.

Altrimenti si sta male.

Mi sento goloso, e la lettura è fluida, è bella, diciotto anni raccontati dall’esterno, un libro su De Rossi senza De Rossi in prima persona, un libro che tiene dentro Roma, l’AS Roma, il romanismo. Racconta luoghi cari a noi pischelli romani, ma soprattutto racconta di splendori e miserie del calcio a Roma, racconta con malcelata frustrazione il dogma della sconfitta, l’immenso amore dei suoi idoli.

Qualcuno potrebbe pensare a un libro per romanisti, ma il libro racconta altro, è uno spaccato che ricorda giorni belli e giorni brutti, e lo fa con memorabile prosa, da uno che sa scrivere e anche bene.

Se Galeano ci disse che il calcio è lo sport figlio del popolo, senza dubbio alcuno De Rossi è il figlio del figlio di quel calcio.

Daniele Manusia è chiaro che non fa sconti a De Rossi, non trascura nulla della vita di Daniele, gli eccessi in campo, la fragilità della vita al di fuori di Trigoria, la sua famiglia allargata, l’altalenante stagione di gloria dalla sua vena al tatuaggio alla fatidica presa di posizione sulla “tessera del poliziotto”.

C’è tutto del giocatore che in campo ci porta anche l’uomo.

Un libro bello; come qualcuno l’ha giustamente definito, un romanzo della sua formazione più che una biografia.

Un libro da consigliare, assolutamente.

Ad maiora.

Daniele Poma

Categoria: Recensioni

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