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Dopo la storia dello Spartak Mosca, continuiamo con le recensioni in salsa sovietica anche per questo 2021. Lo sportivo che celebriamo è nientemeno che uno dei più grandi calciatori russi di tutti i tempi, il mitico “ragno nero”, Lev Ivanovìch Jasin.

In vita mia sono sempre rifuggito dalle assolutizzazioni, cercando di smarcarmi dal tipo di frase: “tizio è stato il più forte di sempre, caio è il migliore di tutti i tempi”, mi sfuggono i parametri e i numeri (che per carità ci sono e sono consultabili) rispetto alle emozioni e ai contesti che li rendono tali.

L’unica eccezione è forse Diego Armando Maradona, coacervo di numeri e sentimenti, ma anche qui non mi sento di contestare chi ha eletto a suo Dio qualcun altro che non sia proprio lui, D10s.

Anche su Jasin non mi sento di crocifiggere qualcuno in caso non lo si consideri il più forte di sempre, ci mancherebbe, ma in questo articolo spero di riuscire a dipanare qualche dubbio sulla sua figura, aggiungendo qualche considerazione personale che aiuti la comprensione dell’unico portiere che ha vinto il pallone d’oro.

 

Innanzitutto Lev Jasin è un eroe di guerra, non perché abbia combattuto al fronte (era giovane) ma perché sia lui che suo padre lavorarono in quelle fabbriche che vennero, per salvaguardarle dai nazisti alle porte di Mosca, spostate in zone sicure, con tutto il corollario di dolore, frustrazione ed estraniamento che comporta un cambio di vita repentino ed emergenziale. Si viveva dove si lavorava e si lavorava a ritmi incessanti per assicurare i rifornimenti alle truppe in guerra e alle popolazioni russe sotto assedio. Era uno dei tanti aspetti nefasti della guerra ma la famiglia Jasin si dimostrò di un patriottismo marcato.

Lev confessa che passò un’infanzia molto felice e serena nella sua biografia, e questa cosa fa il paio con un'altra affermazione simile di un portiere non moscovita ma di Astrakan come Rinat Dasaev, e questa cosa mi colpisce molto perché se c’è un filo conduttore che lega tutti i sovietici di cui ho letto biografie è quello che la maggior parte di loro, bambini sovietici, erano felici (mentre in Italia serpeggiava l’idea che i bambini venissero mangiati in URSS).

Lessi di Jasin che nel periodo in fabbrica le sue attitudini da portiere vennero fuori già in giovanissima età, quando i compagni di lavoro bersagliavano Lev con tiri improvvisi di bulloni che inevitabilmente venivano bloccati dal futuro ragno nero con grandissimo stupore degli stessi.

Un'altra nota della vita di Jasin che mi colpì è che questo monumento del calcio in realtà agli inizi della sua carriera di sportivo non solo non giocava a calcio ma anzi eccelleva in un'altra disciplina che era l’hockey sul ghiaccio (sport estremamente popolare in Unione Sovietica), disciplina in cui nell’anno 1953 con la Dinamo vinse addirittura la coppa sovietica.

Però se ci si ferma alla popolare locuzione “portiere si nasce”, anche Jasin come tanti fenomeni del ruolo nacque come giocatore di movimento e solo dopo, pare contro la sua volontà iniziale, fu messo a guardiano dei pali (un po’ come lo stesso Buffon). Ma dopo di lui in Unione Sovietica ogni bambino che si cimentava nel calcio non sognava di dribblare o segnare ma di essere lui, il “Vratar”.

In realtà come avevo analizzato nell’articolo sul portiere in Russia, la figura del portiere assunse un ruolo particolare anche nelle arti, in perfetto ordine con la costruzione del nuovo Uomo Sovietico: nel teatro come nelle liriche che rappresentavano opere sportive il ruolo del portiere (che nel resto del mondo era visto come il guastafeste, per usare le parole di Jonathan Wilson) era raffigurato come l’eroe anzi direi l’antieroe positivo, negazione dell’individualismo, argine alle derive borghesi, nonché custode e rinnovatore del socialismo in espansione.

Non per ripetermi ma le opere di Denejka, Il portiere, e il film Il Portiere della Repubblica (Vratar Respubliki) si inseriscono proprio nel contesto di esaltazione del ruolo, unico nella storia del calcio mondiale. In parole molto povere, se nel resto del mondo ogni bambino sognava di vestire il ruolo del 10 fantasioso e determinante, in URSS lo stesso bambino sognava di neutralizzarlo quel tipo di giocatore.

Non sembra affatto un caso che la sua figura di difensore della porta vada di pari passo con l’atteggiamento di difesa a cui assurgeva la rivoluzione bolscevica, attaccata dall’esterno e dall’interno già dall’inizio della sua esistenza, nella guerra civile prima contro i bianchi e i suoi alleati, per poi passare alla guerra fredda che l’accompagnò per tutta la sua esistenza.

Comunque il libro, magistralmente scritto e ampliato in questa edizione di Fila 37, del giornalista e scrittore sanremese Romano Lupi (e Alessandro Curletto suo sodale), cui qualche tempo fa dedicammo un post sul libro che parla di Rinat Dasaev, è realmente ben dettagliato con note della sua biografia ma soprattutto della presenza nei momenti culminanti della sua carriera, dalle straordinarie vittorie di Melbourne nei giochi olimpici del ’56 e del campionato Europeo del ’60, come nella meravigliosa e irripetibile vittoria del pallone d’oro del 1963.

Ma nello stesso tempo si raccontano le difficoltà dell’inizio della sua carriera, da terzo portiere e bidone nei suoi esordi nella Dinamo Mosca, del suo perseverare e imparare rigorosamente e meticolosamente dagli errori, dalla cocente sconfitta dei mondiali cileni del ’62 di cui venne eretto a capro espiatorio.

Qui c’è da fare un inciso che lo stesso Lupi sottolinea nel libro: come è possibile che un portiere su cui viene scaricata l’intera colpa del fallimento della spedizione sovietica, reietto e quasi in procinto di lasciare il calcio, diventi l’unico portiere nella storia del calcio a vincere un pallone d’oro ossia il premio per il più forte giocatore dell’emisfero?

La fortuna e la sfortuna è tutta nell’assenza della tv, quindi l’unico inviato sportivo in Cile nel mondiale del ’62 era a quanto pare tutto tranne che un giornalista sportivo e i suoi articoli ebbero la tendenza a colpevolizzare Jasin a dispetto dell’intera squadra, scaricando cosi su Lev l’intero peso dell’eliminazione; ovviamente di riflesso in patria quella squadra invincibile non poteva che perdere per colpe individuali.

Ma a distanza di un anno, nel 1963, si svolse un'amichevole per celebrare il centenario della Football Association tra Inghilterra e Resto del Mondo, terminata 2-1 per gli inglesi. Jasin giocò solo il primo tempo, ma questo bastò per lasciare letteralmente di stucco il pubblico di Wembley con le sue parate: respinse tutti i tiri degli inglesi e lasciò così inviolata la sua porta. A fine gara tutti i giornalisti presenti votarono il compagno Lev il man of the match e di conseguenza il miglior giocatore del mondo.

Quel ritorno in patria fu dolce per chi solo qualche mese prima era stato messo alla gogna, e si badi bene che nella storia del ruolo del portiere queste altalene di emozioni sono la regola, non l’eccezione.

Prima di terminare e invitarvi alla lettura, un’ultima considerazione prima di qualche precisazione di ordine tecnico.

Dal 1989 con la fine dell’URSS la tendenza della stampa e della letteratura russa, su spinta della propaganda e letteratura occidentale, anticomunista viscerale, ha prediletto un tipo di narrazione antisocialista che tendeva a nascondere vite di persone, personaggi pubblici ma anche grandi sportivi come Jasìn, messi da parte per molteplici motivi; si prediligeva un racconto di vite colme di ostacoli, possibilmente di dissidenti e controrivoluzionari, che a loro dire “le bande di assassini comunisti che avevano guidato il paese per settantanni” avevano interrotto, seppellendo in questo modo nel calderone vite di uomini e donne che invece erano simboli di quell’Unione Sovietica che per tanti decenni invece cercò di essere un faro per  un’umanità più giusta, e Jasin fedele compagno, che visse una vita felice, che era organico al partito, premiato e amato oltre i confini dell’URSS, ambasciatore dello sport della nazione sovietica, che viaggiava con sua moglie in lungo e in largo senza mai pensare di abbandonare o tradire il suo paese, era un esempio di sovietismo troppo positivo, troppo poco attraente per chi in quegli anni voleva solo sentire di storie tristi, di confinati, di internati nei campi di lavoro, di gulag e il solito corollario antisovietico… beh, Jasin doveva essere seppellito come seppellita doveva essere l’esperienza del paese dei soviet.

E giù con le storie di vari Strel’cov o Starostin, che per carità grandissimi calciatori di primo livello in Russia, ma nulla a che vedere con la classe mondiale di Jasin.

Dettò ciò, Jasin fu il più grande portiere della sua generazione, assurse a capostipite del ruolo perché inventò un modo nuovo di intendere e allenare la figura dello stesso.

Era alto ed estremamente tecnico, autodidatta (come un po’ tutti i portieri dell’epoca) agile e intrepido, le immagini (rare ahimè) danno l’impressione di un portiere moderno, della capacità di sbrogliare situazioni di mischia con uscite alte o tra i piedi degli avversari, che lo pone in anticipo sui tempi di quasi mezzo secolo sui suoi diretti colleghi.

La capacità di chiudere le traiettorie con la difesa alta anche fuori dai pali (cosa impensabile ai suoi tempi abbandonare l’aria di rigore) lo rendono un portiere moderno ante-litteram. Oggi il termine tecnico è sweeper keepings ed è uno dei valori in base a cui un portiere viene valutato (all’epoca si beccava parecchie critiche come leggerete nel libro).

La figura di Jasin, che nel 2020 avrebbe avuto 90 anni, è una di quelle figure che nella Russia di Putin è stata rivalutata e posta sul piano che merita (chiaro nell’ottica putiniana di creare una coscienza nazionale russa) e sono molte le biografie che sono uscite (e speriamo presto tradotte) e un film sulla vita di Lev in cui la moglie Valentina Timofeevna (ex giornalista) ha partecipato alla stesura, ponendo Jasìn nel giusto posto, quello di uno dei calciatori più forti di sempre.

Chiudo con le parole famose di Sandro Mazzola dopo un Italia-URSS del ’63: “era un gigante nero: lo guardai cercando di capire dove si sarebbe tuffato e solo tempo dopo mi resi conto che doveva avermi ipnotizzato... Quel giorno il mio tiro andò dove voleva Jasin”.

Daniele Poma

Categoria: Recensioni

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