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Ci sono momenti della vita che sono come quei crinali montuosi grazie ai quali si riesce a vedere sia il percorso già fatto che quello che ci si prospetta davanti. Ed è questa l’ambientazione allegorica che riesce a tenere uniti tutti i personaggi dell’ultima (validissima) fatica letteraria di Juri Di Molfetta. 

A partire da chi non compare mai direttamente nel romanzo ma il cui spirito volteggia su tutte le oltre trecentocinquanta pagine di questo piacevole romanzo: gli anni ’80, il decennio yuppie per antonomasia, che sarebbero passati sulle tensioni sociali irrisolte con aperitivi su aperitivi e che si erano appena affacciati portando in dote – tra i tanti disastri – il mondiale di Spagna che avrebbe consolidato il mito del calcio come oppio dei popoli.

 

Ma soprattutto quella Torino che chi come il sottoscritto non ci ha mai vissuto, ma è sempre rimasto affascinato dal suo lato underground (una sorta di Mecca per punk, skins, mods, ultras, rappers e chi più ne ha più ne metta), percepisce di non essere in grado di cogliere la sua vera essenza se non grazie a libri come questo. Una città che stava subendo un drastico cambiamento della propria identità: ferita, forse mortalmente dalla “marcia dei quarantamila” (secondo questura e organizzatori, grossomodo la metà per chi è dotato di un minimo di onestà intellettuale), dove le tute blu venivano idealmente quanto progressivamente sostituite dai colletti bianchi, lo spirito di solidarietà sociale andava diradandosi, così come il vero spirito proletario e l’equilibrio tra le due squadre cittadine e i blocchi identitari che si portavano (e portano ancora) dietro.

Lungo queste due bisettrici spazio-temporali si incastonano alla perfezione tutti i personaggi e gli intrecci che Di Molfetta riesce a inserire con maestria attraverso dei grimaldelli narrativi che rendono l’opera sempre più avvincente di pagina in pagina, ma senza risparmiare gli intermezzi riflessivi che ci aiutano ad allungare la vista dal nostro personalissimo crinale per comprendere cosa sarebbe accaduto negli anni se non nei decenni successivi e che vengono narrati in maniera tanto lineare quanto militante allo stesso tempo. Così il lettore non potrà non sentirsi rapito, o altre volta addirittura complice delle vicende del piccolo Giorgio, dodici anni ma già una visione della vita consolidata (che comunque non lo renderà del tutto immune quando la vita gli riserverà sfide più grandi dei suoi dodici anni) a base di pane e materialismo storico, il tutto a forti venature granata, che si ritrova a vivere suo malgrado la separazione dei suoi genitori, ma ancor prima dei loro modi di essere. Patrizia lavoratrice in Fiat, fedele al partito e al sindacato e che per il fatto di essere così ligia è stata premiata con uno scatto di carriera, una casa nuova in un quartiere borghese, come “borghese” è la sua nuova relazione con Salvatore, uomo del PCI che si è speso per l’accordo e prefigura perfettamente quella metamorfosi che a partire dal decennio precedente stava trasformando il partito in quello squallido ricettacolo di interessi personalistici rappresentato dai suoi epigoni dei giorni nostri. Di contro c’è il padre Guido, anche lui operaio Fiat, eterno incompiuto ma fedele ai suoi principi e che, proprio per questi, di accordi e concertazione non ne vuole proprio sentir parlare finendo in cassa integrazione; fiaccato dalla fine del suo matrimonio e da un rapporto con Giorgio che vive di alti e bassi (complice anche il suo rientro attivo nelle fila degli Ultras Granata del Toro) subirà un vero e proprio terremoto a causa del riaffacciarsi nella sua vita di Anna, esponente di Prima Linea, latitante tornata all’ombra della Mole per risolvere un conto in sospeso e per cercare ancora qualcosa che valga la pena inseguire, poiché la sconfitta della lotta armata è molto più di un’immagine stagliata all’orizzonte, sia dal punto di vista prettamente militare che per il drastico cambiamento del paradigma sociale. Anna si ritrova in pratica a essere sopravvissuta a se stessa, ma brancola nel buio e galleggia nel brodo della sconfitta storica, come emerge dalle sue analisi e dai confronti accesi con Guido che intermezzano i loro amplessi e che riescono a far comprendere meglio di tanti trattati sociologici anche ai profani le motivazioni di chi decise di abbracciare la lotta armata, sacrificando tutto il resto, ma anche di chi – come Guido – non fece mai quel passo e che, come del resto buona parte del movimento, dalle scelte altrui si sentì schiacciato e incapace di elaborare fino in fondo una strategia propria e che ora è diviso tra la voglia di gridare “Te l’avevo detto” e la necessità di salvare il salvabile immaginando una parvenza di futuro.  

Fidi scudieri di Giorgio sono Maurizio e Adriano, legame con un passato fatto di scuole e quartieri popolari, il primo dotato di una fervida fantasia che finisce per rivelarsi un’arma a doppio taglio e il secondo proveniente da una famiglia difficile impelagata nella microcriminalità, con un fratello affabulatore che si ritrova a fare da sgherro al capetto di quartiere, a sua volta manovalanza della ‘ndrangheta che proprio in quegli anni andava a sostituirsi alla mafia catanese nel controllo del territorio e che aveva come proprio interlocutore l’ispettore Starace, una guardia corrotta della peggior specie: viscido e amante del potere, neanche realmente fascista, ma ammiratore subdolo delle élite allo stesso modo di come odia le classi popolari e i movimenti, insomma una sorta di alter ego sfigato di Vic Mackey di The Shield. 

Tutti questi passaggi che vengono spiegati perfettamente nel libro (anche attraverso dialoghi colmi di ilarità riprodotti in uno slang calabro-sabaudo) allo stesso modo di quello sul ricambio generazionale che stava avvenendo in quegli anni all’interno degli UG – probabilmente all’epoca uno dei migliori, se non il miglior gruppo ultras del panorama nazionale – e sulla geografia della Curva Maratona, pagine che servirebbero a tantissimi soloni per comprendere la natura dei gruppi ultras a prescindere dalle proprie fantasie, così come da manuale la rappresentazione di come i fascisti da sempre provino a intrufolarsi nei quartieri popolari (in questo caso i Giardini del “Neruda”) che potrebbero essere illuminanti per chi si trova quasi inerme ad assistere anche ai giorni nostri a questi stessi tentativi.

A completare questa vasta fauna, una combriccola di giovani punk e della loro band, i Distonia, alle prese col rifiuto della vita borghese, il disprezzo da parte dell’opinione pubblica e la fascinazione per le droghe che quando si ritrovano ad avere la grande occasione per sfondare ed entrare nei circuiti musicali che contano, che seguendo il canovaccio proveniente dall’estero stavano mercificando il fenomeno, decidono semplicemente di… comportarsi da Punk. Come del resto impone l’anima che trasuda dalle pagine di questo libro che vale davvero la pena di leggere, per unire allo svago di una lettura ricreativa delle informazioni e delle nozioni su uno dei baluardi dell’antagonismo culturale e pratico d’Italia, per giovani e per – come l’autore e tanti di noi – eterni giovani. 

Giuseppe Ranieri      

Categoria: Recensioni

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