Se è vero - come diceva Eduardo Galeano - che il calcio è il popolo, il potere è il calcio, non dovremmo meravigliarci davanti alla ormai presunta ex rivoluzione del football che sembra essere morta prima ancora di vedere la luce.
Tuttavia, la superlega non è che la punta dell’iceberg del capitalismo calcistico. Un torneo in cui la partecipazione verte su logiche di fatturato e in cui la discriminante è il profitto. L’ultimo step di un’apartheid che ha riunito insieme allo stesso tavolo oligarchi ed emiri che si arrogano il diritto di stabilire i parametri di adesione al banchetto degli invitati.
La notizia di una competizione sportiva, cucita su misura per i massoni del pallone, ha suscitato, in molti, rabbia e incredulità. È proprio così. L’idea che possano esistere anche nello sport figli di un Dio minore, piegati dalle logiche del vile denaro, ha fatto storcere la bocca a molti.
Non può essere di certo un fulmine a ciel sereno, chi sgrana gli occhi davanti a rivelazioni di questa portata si è accorto, forse, in ritardo che il re è nudo. Il calcio non è diventato moderno, e non lo scopriamo di certo ora, ha da sempre ricoperto un ruolo piegato all’affermazione e consolidamento del potere ed è evoluto, secondo logiche Darwiniane, mantenendo immutata l’essenza originaria della classe dominante.
La superlega è soltanto una delle metastasi di questa incurabile malattia calcistica, che negli anni ha introdotto un modello di business insostenibile, consentendo di stipulare ingaggi faraonici, creando scatole cinesi, paracaduti e plusvalenze. Da Blatter fino all’ultimo scandalo dell’ex presidente della Uefa Michel Platini, il palmares del calcio moderno è costellato da scandali e non è certamente quest’ultima mossa ad averne macchiato la purezza; tra l’altro dettata dalla necessità di ripianare i debiti che le politiche scellerate del sistema hanno indotto.
Nel 2019 le Roi Michel aveva fatto ripiombare il mondo del calcio nello spettro dei brogli e delle combine internazionali. Arrestato per corruzione in seguito dell’accusa di aver manovrato l’assegnazione dei mondiali del 2022, l’ex stella della Juventus, in una tavola rotonda che non ha disdegnato di far sedere allo stesso tavolo i pezzi da novanta del calcio e della politica mondiale, come Nicolas Sarkozy, l’emiro del Qatar Tamim ben Hamad al-Thani, e l’allora primo ministro Hamad Ben Jassem, barattò l’acquisto del Paris Saint-Germain in cambio dell’assegnazione della manifestazione sportiva ai magnati del petrolio.
Episodi come questo, assieme a molti altri, mettono in luce come riguardo a etica e valori sportivi, la Uefa non sia affatto in grado di poter tenere un seminario. La rabbia di chi si è mascherato da sindacalista dei tifosi, è un’ipocrisia che si aggrappa alla preoccupazione di perdere il timone della nave, non di certo di salvaguardare lo spirito e tutela dei valori più intimi del supporter. Agli inguaribili romantici sarebbe utile ricordare che questo sistema calcio è stato creato da loro, ed è sempre andato bene così fino a quando qualcuno non ha messo le mani nelle loro tasche.
La stessa morale ipocrita, se così vogliamo definirla, a cui alcuni patron di club di serie A si appellano. Sarebbe utile ricordare come nel calcio ritenuto professionistico, puntualmente ogni anno sia sempre più in voga l’acquisizione di società da parte di holding guidate da presidenti, già proprietari di altre squadre della massima serie che, in evidente conflitto di interesse, giocano a fare i forti con i deboli ma che ora rimangono indispettiti davanti all’assenza di fairplay della superleague.
Ci troviamo davanti ad una realtà ben lontana da valori morali e sportivi, preservati oramai solamente a livello amatoriale e dilettantistico, gli stessi che Pasolini esaltava ritenendoli necessari a nobilitare l’uomo sotto il profilo fisico e sociale, e di cui al tempo stesso criticava la spettacolarizzazione, quale strumento di distrazione per le masse sfruttate. Chi mette a fuoco la realtà dei fatti, si rende conto che la partita in atto è piegata alle logiche che permeano la società: i criteri capitalistici contaminano l’ambiente sportivo, viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda dando origine a dinamiche di classe. Gli stessi principi che da secoli hanno generato la povertà per molti e la ricchezza di pochi, affermano le disparità tra nord e sud, tra bianchi e neri o rendono credibile la possibilità di somministrare i vaccini in relazione al prodotto interno lordo di una regione.
In meno di 48 ore dall’annuncio della nuova competizione europea, l’idea di dar vita ad un’élite sembra essere tramontata. La marcia indietro delle società mantiene ancora vivo il romanticismo che, in nome del Dio denaro, sta scomparendo. Man mano che si scalano le gerarchie calcistiche il valore sportivo e il divertimento lasciano spazio agli interessi degli aristocratici del pallone. I costi insostenibili hanno soffocato la passione, complici negli anni la pay tv, il caro biglietti che continuano ad incidere negativamente sulla vita di una società. La Belle Époque degli anni ’60 e ’70, in cui gli spalti erano gremiti in ogni ordine di posto sta scomparendo; oggi la sopravvivenza di una squadra non dipende più dal potenziale bacino di utenza del suo pubblico ma dalla capacità d’investimento del suo proprietario. È sempre più raro incontrare squadre meridionali nell’olimpo calcistico scomparse negli inferi delle nobili decadute. Ma le favole del calcio di provincia che negli anni hanno rappresentato la ribellione al potere, capaci di sovvertire un ordine precostituito, compagini abili a sbaragliare ogni equilibrio economico come il Leicester di Ranieri, il Catanzaro di Palanca, l’Ascoli di Rozzi e Mazzone, il Perugia di Castagner, sono realtà che meritano di essere tenute a mente per continuare ad affermare il principio per cui Davide può ancora battere Golia.
Pierluigi Biondo