I rimorsi dei vivi sono ancora più tremendi della fine dei morti
Carlo Petrini, Nel fango del Dio pallone, Kaos edizioni, 2000
Ricostituenti
In una domenica di giugno del 1968, nello spogliatoio dello stadio di Ferrara, cinque ragazzi attendono il loro turno per l’iniezione prima della gara. La siringa che sta affondando nella bottiglietta preleva un liquido chiaro dalle striature gialle e rosse mentre gli atleti si alternano sul lettino medico e l’ago gli penetra i glutei senza mai essere cambiato.
Carlo, giovane centravanti del Genoa col fiuto del gol, quel giorno affronterà il Verona in campo neutro ed è uno tra i cinque a ricevere quelle “punture rigeneranti”.
Carlo Petrini è nato a Monticiano, un paesino di circa 1500 anime abbarbicato sulle colline toscane, dove è cresciuto correndo dietro un pallone fatto di stracci, in una casa dove l’acqua e l’energia elettrica scarseggiano.
Se la vita ti ha abituato a patire la fame, a convivere con la precarietà, ma ti ha dotato di notevoli capacità tecniche, acquisisci consapevolezza che il calcio può essere la strada verso l’emancipazione; il sentiero da percorrere per poter sopravvivere. Questo Carlo lo sa bene: le morti premature del padre e della sorella gli consegnano l’incoscienza di piegarsi alle pratiche in voga nello spogliatoio; alle regole da seguire per non essere risucchiato dagli spettri della povertà.
La pratica delle punture l’ha conosciuta sotto le direttive dell’allenatore Giorgio Ghezzi, che lo sottopone alla somministrazione di “ricostituenti” per mano del massaggiatore Pino Boero, un ex pugile che è solito fargliene anche 6 o 7 a settimana senza preoccuparsi delle conseguenze che possono avere sul suo corpo.
Il Genoa non naviga in buone acque e le punture, così come le partite concordate, sono indispensabili “per il bene della squadra, della società e dei tifosi”. Aumentano le capacità di rendimento dell’atleta alterandone però la condizione psicofisica: la lingua si gonfia e una bava verde gli impasta la bocca.
È il 1967 quando Petrini vede con i propri occhi - al termine di una partita - il corpo sofferente e “pallido come un cencio”, del compagno di squadra Giuliano Taccola. Taccola ha 26 anni e morirà improvvisamente qualche anno dopo.
Il doping insomma è una procedura sedimentata, talmente oliata da riuscire ad aggirare qualunque controllo medico con una tecnica collaudata che consente di riversare l’urina pulita nel recipiente attraverso una provetta nascosta in una doppia tasca cucita nell’accappatoio.
Regole del gioco
Petrini conduce una vita di eccessi, soffocato dalla fama e dai milioni: si divide tra auto di lusso e donne bellissime ma nonostante tutto è un’atleta promettente. Nel 1968 viene acquistato dal Milan di Nereo Rocco e a soli 20 anni gioca in una delle squadre più blasonate del campionato. Sembra prospettarsi una carriera luminosa ma uno strappo muscolare lo obbliga a terminare la sua avventura in rossonero prima del previsto. Gli anni a venire sono costellati da stagioni in giro per l’Italia: Torino, Varese, Catanzaro, Ternana saranno una vetrina per riaccendere i riflettori dei maggiori club della serie A.
Il nuovo approdo è la Roma. La sua permanenza nella capitale lo mette in contatto con un personaggio dal profilo torbido. Massimo Cruciani ha un negozio di frutta ma nei fatti è “un faccendiere che può farti avere un’udienza privata col Papa nel giro di un quarto d’ora”.
Negli anni Sessanta e Settanta il calcio è già uno sport che non esalta alcun valore se non quello dell’interesse economico. Petrini è parte integrante di un sistema “mafioso”, in cui combine, scommesse clandestine, doping e frodi fiscali sono funzionali all’interesse collettivo: regole del gioco a cui occorre aderire se non si vuole rischiare di essere fatti fuori.
Domenica 13 gennaio 1980. La Juventus che fa visita al Bologna, squadra in cui milita Petrini, concorda un pareggio, tramite il direttore sportivo dei rossoblù Riccardo Sogliano e i giocatori Savoldi, Dossena, Colomba e lo stesso Petrini. Un risultato già scritto è un’occasione troppo ghiotta per non azzardare una scommessa ingente; in accordo con Cruciani puntano 50 milioni, al resto ci penseranno una papera di Zinetti e un’autorete di Brio.
Il 23 marzo 1980, tutto il mondo sportivo prende coscienza del mondo di mezzo calcistico: 11 giocatori tra serie A e B nonché il presidente del Milan Colombo vengono arrestati. Un’onta che porta alla luce il giro di scommesse clandestine che manovravano i risultati; il lato oscuro dello sport che macchia l’anima immacolata del sistema calcio.
The show must go on
Al processo il presidente Boniperti, mister Trapattoni e i giocatori del Bologna vengono rinviati a giudizio grazie all’assenza di Cruciani, dileguatosi dopo la corresponsione di 70 milioni da parte dello stesso Boniperti; tanto fu sufficiente alla “giustizia pallonara” per emettere sentenze discutibili. Pagarono soltanto Petrini e Savoldi, giocatori sulla via del tramonto e capri espiatori ideali.
Il potere sa come agire in questi casi, taglia i rami secchi, li usa fin quando li reputa utili per poi gettarli via come materiale di risulta. Riversa la colpa su pochi, la via più semplice per gettare fumo negli occhi degli spettatori. È sufficiente, se il sistema è sporco, che si trovi il modo di ripulirlo in superficie così da garantire alla gente lo “sfogo domenicale” di cui ha bisogno. Insomma, una pantomima a regola d’arte culminata con l’amnistia delle condanne per la vittoria nel mondiale di Spagna.
Sipario
La storia di Petrini non è di quelle a lieto fine. È una di quelle vicende in cui si assapora il senso di sconfitta, della malattia e della morte.
Racchiude nel guscio la forza di chi non ha rinnegato nulla del suo passato, ma ne è rimasto fortemente nauseato; di chi è stato parte attiva del male e ha avuto il coraggio di rialzare la testa solo dopo aver toccato il fondo, denunciando un mondo disonesto, assetato di denaro e privo di scrupoli.
Il suo J’accuse ha posto sotto un cono di luce quell’universo parallelo - nascosto alla percezione degli spettatori - che distorce l’apparenza: un sistema che governa i campionati, un mondo di burattinai che muovono i fili offrendo alla platea una recita concordata preventivamente, una sceneggiata dal finale già scritto.
È sul corpo di queste persone che si costruiscono presunte vittorie, l’immagine di grandi trionfi frutto dell’abnegazione in una cornice di onestà cristallina.
Insomma, l’antitesi di un calcio in cui invece la vita di un uomo è soltanto uno strumento utile a conseguire un risultato economico costi quel che costi.
Le sue denunce sono state soffocate, sepolte da una coltre di oblio, spazzate via dalla memoria sportiva; perché solo tacendo la storia, non la si fa esistere nella realtà.
Pierluigi Biondo