Man mano che ci si inoltra lungo la litoranea jonica calabrese, tra i tanti paesi che si attraversano, c’è Siderno. È proprio qui, in un albergo del piccolo paese, che nella primavera del 1997 è riunito il gotha della ’ndrangheta. Il summit non prevede la spartizione di nuove fette di territorio, o di intessere nuove alleanze. All’ordine del giorno si discute la promozione del Crotone calcio in Serie C2. Il 10 maggio, per la prima volta nella loro storia i pitagorici accedono di diritto nel calcio professionistico.
La vittoria del campionato avvenuto dopo uno scialbo pareggio è stata definita dalle famiglie Cordì di Locri e Vrenna di Crotone in cambio di uno stock di bazooka e kalashnikov.
È questo l’inquietante affresco criminale che affiora dalle parole del pentito Giovanni Marino, e che mette a nudo un intreccio incestuoso tra due mondi apparentemente lontani.
Un legame che non è un’eccezione, ma sempre più la regola.
Quando in un’intervista rilasciata nel 1970, Pier Paolo Pasolini considerò il calcio “l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”, inquadrò perfettamente l’incapacità umana a rinunciare al gioco del pallone. Gli stadi rimanevano (e forse rimangono ancora oggi) l’unico palcoscenico in cui incanalare l’evasione della gente: l’unica liturgia domenicale capace di generare un comune sentimento d’appartenenza. D’altra parte, panem et circenses: due aspetti a cui il popolo non riesce a fare a meno, e di cui le mafie hanno saputo approfittare.
Leggendo la relazione della commissione antimafia del 2017, si possono scandagliare i legami torbidi che hanno permeato l’universo della rolling ball.
L’agonia finanziaria delle società sportive ha permesso ai clan di ricoprire un ruolo attivo nell’azionariato societario. Il football è diventato la grande lavatrice di proventi illeciti: complice l’assenza di una vigilanza adeguata, più attenta a conoscere l’equilibrio tra costi e ricavi piuttosto che l’identità dei proprietari.
La liquidità immediata di cui dispone l’organizzazione mafiosa rappresenta una risposta veloce per le società in cerca di nuovo capitale. Le mafie iniettano denaro in cambio di quote azionarie, fornendo un’alternativa alla lentezza burocratica delle banche.
Così le cosche sono riuscite a mettere le mani negli affari dei piccoli e grandi club.
Se da un lato il beneficio economico è di facile comprensione, quello sociale è molto più raffinato. Intervenire in prima persona nel calcio consolida il potere, ripulisce l’immagine e alimenta il consenso.
E cosa può esserci di meglio - per le organizzazioni criminali - che accrescerlo portando alla vittoria la squadra locale?
Vi chiederete come sia possibile sostenere personaggi vicini o affiliati a organizzazioni mafiose.
Quando pensiamo alle mafie, salta alla mente l’immagine cruenta e stragista: si prende coscienza del fenomeno solo quando si vede scorrere sangue.
È molto importante che ci si allontani dalla visione stereotipata del fenomeno: l’immagine dell’uomo d’onore con coppola e lupara che parla solo il dialetto. Il sostegno a uomini del clan nasce spesso in maniera inconsapevole, nell’inganno dell’apparenza distinta e “comune” immediatamente percepibile.
Come tutti i codici antropologici, anche quello mafioso ha subito delle metamorfosi. Il collaboratore di giustizia Carmine Alfieri ha spiegato come la violenza, la ferocia non siano più requisiti funzionali alle organizzazioni criminali. È l’agire silente che risulta più virtuoso per gli affari e mantiene saldo lo scettro del potere.
Prendere le redini di una squadra, al giorno d’oggi, aiuta a recidere il cordone ombelicale con la visione ancestrale del fenomeno mafioso: allontana dalla mente la possibilità che un affiliato alle cosche non possa apparire liberamente accanto a uomini delle istituzioni. Una fine strategia che punta a generare simbiosi, piuttosto che terrore. Terrorizzare non garantisce la possibilità di instaurare un rapporto di fiducia con la tifoseria. È così che si innesca il corto circuito che legittima il potere criminale, traducendolo in prestigio e impunità.
Chi potrà mai credere che un presidente e dunque una persona distante da certi ambienti, possa andare a braccetto con uno spietato camorrista.
Eppure, è quel che accadde nel 1980, quando lo storico presentatore di Novantesimo minuto Luigi Necco venne gambizzato dopo aver denunciato quanto accaduto nell’aula di tribunale durante il processo al capo della nuova camorra organizzata Raffaele Cutolo. Il presidente dell’Avellino calcio Sibilia salutò don Raffaè facendo consegnare dal talentuoso brasiliano Juary una medaglia d'oro con scritto: A don Raffaele Cutolo, con stima.
In questo grande mosaico, in cui due mondi si fondono in un unico corpo rendendosi indistinguibili, spesso avviene una sospensione del giudizio. Molti (ma non tutti) pur non condividendo il profilo discutibile del presidente della propria squadra, lo sostengono separando la sfera calcistica da quella sociale.
L’indulgenza del calcio dimentica gli errori, le contraddizioni, purché si ottengano i riscatti sportivi. Insomma, il calcio è spesso quella zona franca in cui si rafforza la tesi del fine che giustifica i mezzi.
Per dimostrare in maniera empirica questa tesi, è sufficiente prendere ad esempio come il presidente (Silvio Berlusconi) di una blasonata squadra italiana (AC Milan), che ha costituito un partito politico (Forza Italia) grazie al supporto di un uomo condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa (Marcello Dell’Utri), per merito dei trionfi sportivi, abbia pacificato le rivalità sociali e politiche che lo stesso personaggio rappresentava.
E negli anni della sua gestione, la tifoseria rossonera, come è normale che sia, ha annoverato migliaia di oppositori di Forza Italia, che però inconsapevolmente hanno aumentato il potere del Cavaliere.
Controllare una porzione dei cittadini, a partire dalla tifoseria, può avere riflessi anche sul corso delle decisioni extra calcistiche: per esempio influenzando indirettamente le loro opinioni in cabina elettorale.
È altrettanto plausibile che molti tra i supporters del Newcastle si trovino a distanza siderale dalla visione del mondo di Mohammed Bin Salman, lo sceicco del sedicente rinascimento saudita (per intenderci colui che, secondo un report dei servizi segreti americani, è considerato il mandante dell’omicidio del giornalista del Jamal Khashoggi), ma al tempo stesso sono pronti a sostenerlo per la gloria della squadra.
È tempo di una lucida riflessione sul mondo del pallone, senza lasciarsi trascinare da impulsi di pancia. Le mafie agiscono lì dove riescono a trovare terreno fertile, dove il consenso diviene humus per scalare le vette del potere. Servendomi con estrema cautela delle parole di chi veramente ha posto se stesso di fronte a questa battaglia, rivendico le parole di Paolo Borsellino per cui “la lotta alla mafia non è soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolge tutti, soprattutto le nuove generazioni, per distaccarsi dal compromesso morale, dall’indifferenza e quindi dalla complicità”.
In poche parole, siamo tutti protagonisti di questa guerra, perché anche il calcio ormai è cosa nostra!
Pierluigi Biondo