Julia Ituma è morta, e con lei la nostra dignità. Le ultime notizie dicono che la pallavolista diciottenne si è tolta la vita nella notte tra mercoledì 12 e giovedì 13 aprile, poche ore dopo la partita di Champions League disputata a Istanbul tra la sua squadra, la Igor Novara, e quella di casa, l’Eczacibasi.
Non ci è voluto molto tempo perché in rete spuntassero – ancor prima che gli inquirenti potessero pronunciarsi – numerosi video ritraenti la giovane atleta in evidente difficoltà mentre passeggiava nei corridoi dell’albergo. “L’incredibile video della Ituma pochi istanti prima della tragedia”, ecco cosa recitano i testi che accompagnano le immagini e che, è doveroso sottolinearlo, non sono stati diffusi da un malizioso profilo anonimo, no, ma da tutti i principali media italiani, sportivi e non. E allora la riflessione che dobbiamo fare è quanto mai seria, urgente, e ci costringe a interrogarci schiettamente. Dobbiamo inquisirci e inquisire la nostra umanità più viscerale e renderci conto che, in fondo, questa pornografia del dolore ci stuzzica, ci incuriosisce, ci solletica. Che è un po’ come quando da bambini appoggiavamo esitanti un piede negli scalini al buio che portavano in cantina, o come quando sbirciamo con la coda dell’occhio l’incidente che blocca la corsia opposta alla nostra, o ancora come quando cerchiamo tra i necrologi l’età dei defunti e, se ci accorgiamo che sono più anziani di noi, tiriamo un sospiro di sollievo; anche questa volta l’ho scampata, ci diciamo consolandoci e rimettendoci in cammino. “La propria morte”, scriveva Freud, “è irrappresentabile, e ogni volta che cerchiamo di farlo, possiamo constatare che in realtà continuiamo a essere presenti come spettatori”. Nei confronti del dolore, quindi, siamo abitati da diverse sfumature: il fascino per il buio, per le tinte crepuscolari, il bisogno di dare voce e spazio a tutte le nostre sfumature emotive, ma anche la consolatoria e rassicurante – e dannosa – necessità di scacciarlo, di allontanarlo e guardarlo in faccia a un altro; e allora il video che ritrae Ituma in un momento così drammaticamente sacro e intimo ci aiuta ad allontanare, ancora una volta, i fantasmi che ci aleggiano intorno. Ma se la nostra relazione con il dolore proseguirà su questi binari non faremo altro che calcificare e dare linfa vitale a una relazione tossica, perversa, pornografica e stigmatizzante: stigmatizzante, sì, perché finché la sofferenza sarà una faccenda individuale il rischio grosso – in cui siamo già dentro – è che mancheranno sempre di più le parole e i simboli per raccontarla e rimarremo muti, cementificati nel nostro personalissimo e inscalfibile dolore. E sembra quasi un paradosso quanto appena scritto; ci sentiamo inzuppati nei drammi del mondo, pensiamo di essere allenati alle angosce, al lutto, siamo bombardati da notizie nefaste, e invece no: siamo semplicemente spettatori passivi e generatori della pornografia del dolore, quella che ce lo fa guardare con la bava alla bocca e gli occhi gonfi e, travalicato il culmine dell’intensità – proprio come durante una masturbazione fugace –, chiude il computer e continua la sua giornata, come se nulla fosse successo. Non viviamo un’esperienza intima, siamo piuttosto dei voyeur del dolore. E tutto questo, ci si dirà, è un modo per sopravvivere, per alleggerire la vita e veleggiare sereni tra le noie del quotidiano, e invece no: questo allontanamento della sofferenza, questo nasconderla sotto il tappeto l’ha resa un tabù, un qualcosa di innominabile e da cui, quando ci finiamo dentro, fatichiamo terribilmente a uscire. Sbattiamo la testa contro i recinti che ci hanno sagomato intorno e che ci hanno detto che lì non si guarda, che certe cose bisogna scacciarle. Sbattiamo la testa contro la maestra che vigila tra di noi e il sottoscala e ci dice che lì non si va, che lì ci sono i mostri. Ma noi esseri umani, impastati di prodigi e di miserie, costruiti con solida roccia e con sabbia evanescente, abbiamo bisogno di uscire dal recinto e guardare fuori. Abbiamo la necessità viscerale di andare nelle segrete a sbirciare, e non chiediamo altro che una fiammella che ci guidi e una mano – tremante, sudata, insicura, umana – che ci aiuti a familiarizzare con il buio e che ci insegni a dare un nome alle ombre; che quella cosa spaventosa, se ci avviciniamo con il lumino, scopriamo che è solo una sedia; che quella cosa spaventosa che ci fa battere il cuore, se ci avviciniamo con morbidezza, scopriamo che è solo paura.
“Siamo la società senza dolore”, scrive il filosofo sudcoreano Byung-chul Han nel suo omonimo libro, “e l’anestesia generale della società”, sostiene ancora lui, “fa sparire la poetica del dolore. L’anestesia scaccia l’estetica del dolore. Nella società palliativa disimpariamo totalmente come si fa a rendere il dolore raccontabile, anzi cantabile, a renderlo linguaggio, a traghettarlo in una narrazione, a ricoprirlo di una bella apparenza, a farci beffe di lui”. Abbiamo un unico e imprescindibile dogma, una nuova forma di dominio; esseri felici, e se non lo siamo perdiamo anche la nostra collocazione nel mondo, nell’universo, nell’esistenza. Il metafisico comandamento della felicità va in realtà a braccetto con quelli molto più materiali della produttività, dell’efficienza, della funzionalità: devi essere felice per funzionare, abbiamo imparato. Ce l’abbiamo sotto pelle questa idea, abbiamo costruito la nostra identità attorno alla nostra utilità, e quando questa viene meno e ci sentiamo scricchiolare crolla tutto.
Sarebbe una speculazione becera e inutile quella di risalire alle bufere che imperversavano nel cuore e nell’animo della giovanissima pallavolista italiana, sarebbe – nuovamente – una mercificazione della sofferenza, e noi tutto questo non lo vogliamo. Arriveranno a dirci i perché, i quando, i cosa, come se le persone fossero – appunto – la somma di freddi numeri. Arriveranno a dirci i perché, i quando, i cosa, proprio – ancora una volta – per quanto scritto fino a ora: non abbiamo confidenza con il dolore e abbiamo bisogno di razionalizzarlo, incasellarlo, classificarlo, renderlo addomesticabile.
Pretendiamo un mondo attento, gentile, che sappia abitare tutte le sfumature che esistono tra il bianco e il nero, tra la luce e il buio. Esigiamo che il dolore abbia infinite facce, innumerevoli aspetti, e nessuno ci insegni come si soffre e perché. Vogliamo allenarci a riconoscere la sofferenza, non quella che ingolfa i salotti televisivi e le bacheche dei social network, ma quella sacra, minima, impercettibile sofferenza che germoglia sul volto degli altri che ci stanno attorno. Preghiamo affinché le nostre vibrisse, i nostri sensori siano sempre sensibili e pronti ad arrivare un attimo prima che il dolore esploda e prima che si dica – come si sta facendo anche in queste ora circa la vicenda della Ituma e come si dice in tutti i casi di questo tipo – che no, non sospettavamo nulla.
Leggere il dolore, reintegrarlo nella nostra quotidianità, riconferirgli dignità e spazio; non per annichilire la vita, ma per arricchirla di sfumature e per ritornare a un’umanità che pare sempre più lontana.
Allargare il dolore, partecipare alla sua metafisica, e far sì che da vicenda individuale diventi una vicenda collettiva; una presa di coscienza e un acceleratore di cambiamento che tolga la croce dalle spalle dell’unico Cristo e faccia sì che ognuno se ne prenda un pezzo, per alleggerire la salita di tutti, per riconoscersi tutti divini e drammatici esseri umani.
Francesco Fontana