Meglio tardi che mai. È proprio il caso di dirlo. Specie se il ritardo più che trentennale riguarda la morte di un ragazzo di ventisette anni. L’ultimo capitolo giudiziario sulla morte di Denis Bergamini è la prova di come sia sempre possibile riscrivere una verità processuale anche dopo anni di distanza. 35, per l’esattezza. Piú di tre decenni per giungere a un primo – ma comunque fondamentale – verdetto: Denis Bergamini è stato ucciso. La revisione di un processo archiviato (oggi è possibile affermarlo) troppo frettolosamente come suicidio non sarebbe stata possibile senza la tenacia della famiglia Bergamini. Di Donata, in primis. Una donna caparbia che ha sempre lottato per fare luce su quanto accadde a suo fratello quel maledetto 18 novembre 1989.
La storia e le anomalie
Erano passati nove giorni dalla caduta del muro di Berlino quando il corpo esanime di Donato Bergamini venne ritrovato lungo la statale 106, nei pressi del castello di Roseto Capo Spulico, in provincia di Cosenza. Denis – come lo chiamavano amici e tifosi – nella città dei Bruzi era arrivato 4 anni prima, come centrocampista di grande prospettiva. Le sue prestazioni nel campionato cadetto avevano conquistato l’affetto dei tifosi rossoblù e acceso i radar di importanti club di serie A. Insomma, nulla sembrava andare storto nella vita del giovane calciatore originario di Argenta da lasciar presagire un estremo gesto. Restano pertanto un giallo gli ultimi momenti di vita del giovane e i motivi che secondo le testimonianze dell’epoca lo avrebbero spinto a gettarsi sotto un camion. Una ricostruzione mai creduta attendibile dalla famiglia, fin dal giorno seguente quel maledetto 18 novembre, quando il padre di Denis, Domizio, nella camera mortuaria vide il volto del figlio senza nemmeno un graffio. Volto che venne immortalato anche in una foto scattata per la perizia medico legale nel gennaio 1990, ma ritenuta una prova non sufficiente a instillare il dubbio sulla tesi del suicidio. Per i giudici infatti le deposizioni degli unici testimoni oculari, l’autista Raffaele Pisano (unico imputato, poi assolto) e dell’ex fidanzata Raffaella Internò, furono valide per ritenere il “tuffo” un gesto volontario e archiviare il caso.
Un primo traguardo
Oggi, quel che conta è che la sentenza di primo grado ci dice che Denis Bergamini è stato assassinato. Morto per “asfissia meccanica violenta” e scaraventato sotto il veicolo in corsa per mettere in scena il suicidio. L’elemento che ha giocato un ruolo determinante nel processo è stato l’aspetto medico legale. Le deposizioni di Internò e di Pisano vengono infatti confutate dall’esame autoptico avvenuto dopo la riesumazione della salma voluta nel 2017. Come ha spiegato il pubblico ministero Luca Primicerio “Bergamini era già morto prima che il camion arrivasse”; “i periti medico-legali che hanno effettuato gli esami sul corpo di Bergamini – ha detto Primicerio – smentiscono totalmente il racconto dei fatti di Isabella Internò, secondo cui Bergamini si sarebbe suicidato gettandosi sotto il camion di Pisano”. Per la magistratura, dunque, Isabella Internò (unica imputata nel processo per la morte dell’ex calciatore della squadra rossoblù) dovrà scontare 16 anni di reclusione, perché mandante dell’omicidio del calciatore del Cosenza consumatosi in concorso con ignoti. La colpa di Bergamini – ha spiegato il pm – è rintracciabile nell’assenza di volontà del calciatore a un matrimonio riparatore per salvare l’onore della ragazza, dopo l’aborto avvenuto due anni prima.
Ad oggi sono quindi due le certezze: le versioni fornite da Isabella Internò e Raffaele Pisano sono false; e che Denis Bergamini non si è suicidato, ma è stato ucciso (soffocato, probabilmente, con una sciarpa o un sacchetto). Nessuna traccia invece degli esecutori materiali del delitto. Sperando che per identificarli non occorrano altri 35 anni!
Pierluigi Biondo