«Kerman chi?», potrebbe essere la domanda. Perché a sentire il nome di Kerman Lejarraga, qualcuno potrebbe rimanere interdetto. Ma invece bisogna annotare questo nome, con attenzione. Professione pugile, nativo di Morga e orgogliosamente basco, sabato 28 aprile è salito sul tetto d’Europa. La cintura legata in vita riporta la dicitura Ebu (European Boxing Union) ed è blu come il colore “ufficiale” dell’Unione Europea, mentre la categoria di peso sono i welter. Insomma il «Revolver di Morga», come viene soprannominato Lejarraga, ha vinto il titolo europeo di boxe, sbarazzandosi in due riprese del suo avversario Bradley Skeete from U.K. per ko tecnico.
Classe 1992, 26 anni, 175 centimetri e acconciatura tipicamente “basca” (ovvero per chi non ha confidenza con Euskal Herria, un misto fra MacGyver e un tedesco della Ddr, più in questo caso un codino) Lejarraga è la nuova speranza del pugilato europeo (gestito per altro da Lou Di Bella, uno dei più importanti promoter nordamericani), ma è soprattutto un ragazzo della Herri Norte Taldea, la curva antifascista dell’Athletic Club, meglio conosciuto come Athletic de Bilbao.
Sabato 12 maggio 2018 è una data che rimarrà negli annali del calcio tedesco. L'Amburgo, infatti, pur vincendo l'ultima partita della stagione contro il Borussia Monchengladbach, è retrocesso in Zweite Liga: la serie B del campionato tedesco.
Un evento storico visto che, dalla fondazione della Bundesliga nel 1963, la squadra principale della ex capitale della Lega Anseatica non aveva mai dovuto subire l'umiliazione di una retrocessione. Una tragedia calcistica che i tifosi della squadra non hanno preso affatto bene, dando vita a danneggiamenti e incendi sugli spalti dello stadio di casa, il Volksparkstadion.
Tutta questa storia fa sì che, nella stagione 2018/2019, si riproporrà un derby cittadino tra i più sentiti di sempre: quello tra l'Amburgo e l'Fc St. Pauli. Quest'ultima è la squadra del quartiere portuale della città tedesca che, da sempre, cerca di contrastare sotto numerosi punti di vista, i suoi cugini calcistici.
Metà marzo. Sei giornate alla fine. Questa, poi due settimane di sosta a cavallo di Pasqua, e il rush finale. Con un campionato del genere, ci sono anni in cui arrivi primo quasi annoiandoti. Un vero squadrone quello di mister Serrau, dal portiere alla prima punta. Imperioso, prepotente, a tratti spettacolare, con alcune individualità da categoria superiore. Specie dall’autunno, da quella partita in casa con la Grevigiana rimontata da 0-2 a 3-2 nel secondo tempo. Quella che ti fa prendere definitivamente coscienza che hai un compito ben preciso, inutile sottrarsi. Ma nel tuo girone hai due avversarie verrebbe da dire del cazzo, tignose e dalle sette vite, ma a un’analisi lucida forti e meritevoli: Incisa e Dicomano, da affrontare alla terzultima e penultima giornata. E qui la trama inizia a essere quella dei grandi campionati, terribili e bellissimi allo stesso tempo, perché è vero che si soffre, è vero che si è sempre sull’orlo del baratro, ma in fondo provare questo menu di emozioni è proprio il motivo per cui un malato di calcio fa tutto questo. Per cui assume questa droga.
Nonostante una strenua e forte opposizione da parte di associazioni e personalità di tutto il mondo (da Noam Chomsky a Moni Ovadia), che hanno lanciato una campagna capace di organizzare iniziative di protesta in tutta Italia e non solo (finanche un appello al Papa), alla fine è arrivato anche il giorno della partenza del 101° Giro d’Italia, uno dei più controversi, se non il più controverso, almeno nelle premesse.
Perché, è inutile girarci intorno, la scelta di fare partire la “Corsa Rosa” da Gerusalemme (Ovest) in concomitanza col settantesimo anniversario della fondazione dello Stato d’Israele, con buona pace degli organizzatori e delle loro dichiarazioni di facciata, ha un grosso portato sia simbolico che politico, tutt’altro che neutro, e anche la scusa di voler rendere omaggio a Gino Bartali (dichiarato “Giusto tra le nazioni” nel 2013 e appena insignito di cittadinanza onoraria israeliana) che durante la Guerra Mondiale salvò circa 800 ebrei risulta fallace, altrimenti sarebbe bastato che almeno una tappa di questa edizione della corsa transitasse dalla Toscana, terra natale del ciclista.