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Al netto di alcune meritevoli eccezioni, si può tranquillamente affermare che, nell’ultimo decennio, la maggiore novità tra le pratiche di socialità e aggregazione all’interno del variegato arcipelago dell’antagonismo sociale, dell’opposizione alla mercificazione di ogni aspetto della vita e alle logiche di profitto, sia costituito dal poderoso sviluppo dello sport popolare. A prescindere dalle varie piattaforme di riferimento, sono sempre di più i collettivi in tutta Italia che sviluppano palestre popolari, squadre di calcio, di rugby, di basket ecc. In momenti di riflusso della coscienza sociale e politica, come quello che purtroppo stiamo vivendo sulla nostra pelle, proprio quello dello sport popolare sembra essere uno dei pochi ambiti capaci di regalare soddisfazioni: infatti attraverso l’azionariato popolare e i meccanismi assembleari si rinnovano e si perfezionano le pratiche di autogestione e di compartecipazione, e si ha la possibilità di coinvolgere in modo diretto quei quartieri e più in generale quei territori nei quali si vive la propria quotidianità e da cui, si spera, potranno svilupparsi nuove forme di resistenza al volto più odioso del nuovo ordine che si va delineando, quello sciovinista e marcatamente razzista e fascista.
Un gruppo di aspiranti calciatori africani, trasferitosi a Istanbul, progetta di creare un’associazione per riuscire a costituire una squadra di calcio che possa essere riconosciuta dalla Lega calcio turca e possa permettere loro il sogno di giocare in futuro per una delle squadre della Süper Lig turca (la serie A turca).
Questi giovani calciatori puntano a fondare ufficialmente una squadra di calcio, costituendosi come associazione sportiva nel più breve tempo possibile.
Ogni Martedì e Giovedì alle 8:30, circa 30 ragazzi africani si allenano per un’ora allo Stadio Atatürk nel municipio Avcılar di Istanbul. I giovani calciatori provengono dalla Nigeria, dal Senegal, dal Ghana, dalla Liberia, dalla Costa d’Avorio e da altri paesi africani, alcuni lavorano in diversi settori, altri sono disoccupati, ma tutti vorrebbero, giocando a calcio, poter dimostrare in Turchia, un paese che dicono di amare molto, tutto il loro valore.
Si può affermare, senza paura di essere smentiti, che le dure prese di posizione da parte delle tifoserie organizzate di ogni angolo del globo contro il calcio moderno costituiscono un mantra di questo primo scorcio di inizio millennio, ma probabilmente mai nessuno si era spinto fino a contestare il calcio virtuale prima della scorsa settimana.
Infatti lo scorso 23 settembre a Berna, durante il match tra i campioni di Svizzera in carica, i padroni di casa dello Young Boys, che proprio oggi affronteranno la Juventus all’Allianz Stadium in Champion’s League, e il Basilea (partita di casa terminata con un roboante 7-1 per i gialloneri), è andata in scena una plateale contestazione: durante la partita, al sedicesimo minuto, dalla curva di casa sono cominciati a volare in campo palline da tennis, joystick e finanche delle consolle da gioco, cosa che ha costretto l’arbitro a sospendere la partita per qualche minuto, fino a quando non è stata ripulita la porzione di campo interessata.
Uno dei principali banchi di prova per la tenuta degli assetti europei in questi mesi era stato individuato senza dubbio nelle elezioni svedesi.
Pur non essendo affatto ultrà dell’UE, appare oggettivo che gli improvvisati tuttologi che avevano intonato con largo anticipo il “De prufundis” per il partito socialdemocratico svedese, garante della stabilità nazionale e allo stesso tempo avevano dato per scontata una poderosa avanzata dell’estrema destra, devono rivedere le loro analisi e magari anche le loro previsioni che non sono affatto così ineluttabili come avrebbero voluto farci credere.
Certo, è vero che in quella che è la patria morale della socialdemocrazia e del welfare-state, il partito guidato da Stefan Löfven ha ottenuto la più bassa performance elettorale nei suoi centodieci anni di storia, ma se paragonata alla catastrofe dei partiti fratelli nel resto d’Europa, incapaci di raccogliere le sfide della modernità o, peggio ancora, traditori fraudolenti del patto ancestrale con la loro base sociale di riferimento, non ci si può certo lamentare.