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Probabilmente se Carlos Queiroz, l’allenatore che è riuscito a far qualificare l’Iran ai mondiali per ben due volte di fila, avesse saputo che sarebbe capitato nello stesso girone di Spagna e Portogallo, avrebbe evitato di affermare, all’indomani della qualificazione alla fase finale ottenuta grazie a un successo sull’Uzbekistan, che la sua squadra sarebbe andata in Russia con velleità di passaggio del girone. Anche se la fortunosa vittoria di ieri contro il Marocco permette ancora di sognare. Ma in fin dei conti non è mai stato l’aspetto prettamente calcistico la principale attrattiva indotta dalla partecipazione della nazionale iraniana ai mondiali.
Negli ultimi tempi il problema del razzismo ha investito sotto vari punti di vista il nostro paese. Il neo-governo a tinte gialloverdi, d'altronde, con la nomina a Ministro dell'Interno del segretario leghista Matteo Salvini ha dato un chiaro segnale, almeno a parere di chi scrive, da questo punto di vista.
Appena preso possesso delle stanze del Viminale, Salvini stesso ha fatto capire le sue reali intenzioni al grido di “prima gli italiani” e ha iniziato a scandire slogan giornalieri contro i migranti che, nelle ultime settimane, stanno ricominciando a raggiungere le coste italiane. Tutto questo ha aumentato ancora di più quel clima d'odio razziale nei confronti del “diverso”.
Dalle parole, purtroppo, si è anche passati ai fatti. Il 2 giugno scorso Soumaila Sacko, un migrante maliano, vittima del capolarato e sindacalista dell'USB, è stato ucciso a fucilate nella provincia calabrese di Vibo Valentia. La sua colpa era stata quella di andare a cercare delle lamiere in un capannone abbandonato della zona per poter costruire un rifugio.
A tutto questo clima d'odio e di “paura del diverso” per fortuna ci sono varie forme di resistenza che interessano vari ambiti della società italiana. Tra questi, non poteva certo mancare quello dello sport popolare.
I dinosauri della terra calcistica teutonica hanno abdicato.
Non è bastata la vittoria casalinga per 2-1 contro il Borussia Mönchengladbach, nell’ultima giornata dello scorso 12 maggio. Il fantomatico orologio del Volksparkstadion, che dal 2003, anno della sua installazione, segnava gli anni, i mesi, i giorni, le ore, i minuti e i secondi di permanenza della squadra in Bundesliga, si è miserabilmente azzerato. Poco dopo un vero e proprio delirio pirotecnico di disappunto messo in atto dalla Nordkurve Blau-Weiss.
Dopo 54 anni dalla nascita della Bundesliga, l’Amburgo retrocede in Zweite Liga, lasciando a Inter, Barcellona, Real Madrid, Athletic Bilbao e poche altre compagini in Europa il prestigioso primato di aver sempre disputato i rispettivi campionati di massima serie.
In realtà il fascino per gli ormai ex dinosauri della massima serie teutonica non è legato solo al famoso orologio “Bundesliga Uhr” ormai spento o ai fasti di fine anni Settanta e inizio anni Ottanta del Novecento, culminati con la vittoria della Coppa dei Campioni nel 1983 in quel di Atene contro la Juventus.
Con l’imminente arrivo dei Mondiali di calcio, soprattutto per chi, come noi calciofili di tutta la penisola, sarà relegato al ruolo di “spettatore” non interessato, le analisi sulle implicazioni extra-agonistiche del calcio internazionale si sprecano. Infatti, tra un ricorso a quelle categorie che ormai abbiamo perfettamente metabolizzato (dal “soft power” allo “sport washing”) e l’altro, anche attraverso queste pagine è stato più volte sostenuto il concetto che l’acquisizione di legittimità di uno stato o del suo nuovo protagonismo sullo scacchiere politico passi inevitabilmente anche dal pianeta calcio.
Allo stesso tempo, in maniera perfettamente speculare, il calcio può diventare anche il veicolo per far conoscere e per rilanciare le velleità indipendentiste sparse qua e là per il pianeta; è proprio in quest’ottica che sono nati i mondiali per le nazionali degli stati non riconosciuti dei quali si sta disputando in questi giorni la terza edizione.