Il pugilato come riscatto. Come rivincita. Forse la favola più bella che il...
Il quartiere di San Lorenzo, fin dalla sua fondazione alla fine del XIX...
Quello che manca oggi nell’editoria italiana è una sana storiografia...
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Il pugilato come riscatto. Come rivincita. Forse la favola più bella che il ring possa raccontare. Ma anche la più semplice da “vendere”, ottima per il grande schermo, per una certa retorica sempreverde in un paese profondamente cattolico come il nostro, bramoso di lieto fine e avaro di indulgenze e autoassoluzioni. Perfetta per ripulire la coscienza.
Nel weekend scorso invece al PalaDozza a Bologna due meravigliose storie di pugilato, autentiche, vere, che sanno di riscatto ma non sono però per le anime belle. Storie di resistenza. Di fatica. Di sudore. Di sacrifici e di difficoltà.
Due capolavori sportivi ma soprattutto umani: Pamela Malvina Noutcho Sawa campione mondiale International Boxing Organization (IBO) dei leggeri e Ghaith Weslati campione italiano dei piuma.
Perché in tanti oggi si profondono in applausi, parlando il linguaggio educato dell’integrazione, del volemose bene, celebrando queste due vittorie come esempio virtuoso dei cosiddetti “nuovi italiani”, ma si dimenticano il trattamento e le ingiustizie che questi due atleti hanno subito.

Il quartiere di San Lorenzo, fin dalla sua fondazione alla fine del XIX secolo, ha rappresentato uno dei cuori pulsanti del mondo della militanza capitolina. Qui fin dai primi tempi vennero ad abitare differenti categorie di lavoratori, dai ferrovieri agli artigiani, che dovevano edificare la “capitale del Re”.
Anche per questa ragione la zona tra la stazione Termini e porta Maggiore è stata caratterizzata da un’anima popolare che cercava di portare avanti i suoi diritti in ogni modo possibile. Poi purtroppo, col passare del tempo e della storia, anche qui è arrivata la gentrificazione capitalista che ha reso San Lorenzo uno dei numerosi luoghi famosi essenzialmente per la cosiddetta movida.
La sua militanza però, anche se molto controllata e messa a tacere appena possibile, non ha mai smesso di farsi sentire sotto numerosi punti di vista. Tra questi, dall’estate del 2013, è arrivato anche quello sportivo. In quei giorni infatti un gruppo di amici decide di dar vita a una polisportiva di sport popolare e la ribattezza Atletico San Lorenzo.

Quello che manca oggi nell’editoria italiana è una sana storiografia sportiva. Qualcosa che vada oltre il tono dello storytelling, che racconti e sistematizzi i fatti, prima delle opinioni e delle narrazioni. Testi non necessariamente rivolti all’accademia – in grado quindi di parlare a tutti – capaci però di utilizzare il metodo storico come bussola e direzione.
Colpi e leggende. Storia della boxe italiana di Marvin Trinca, edito dai tipi di Rogas Edizioni, si muove virtuosamente in questo solco e prova a riempire il vuoto.
Non è un caso: Trinca, classe 1988, livornese, insegnante, è laureato in storia e ha collaborato con la Società Italiana di Storia dello Sport (SISS), maneggiando con sapienza tutto l’armamentario metodologico di questa disciplina.
L’autore racconta la nascita e la diffusione del pugilato in Italia, ma la sovrappone e lega alla più generale storia d’Italia. Lo fa con garbo, senza forzature – quasi come sottotesto – e senza mai sentire il bisogno di costruirci intorno teorie o filosofie complesse.
Per dirla con Braudel bilancia sapientemente storia evenemenziale e storia dei fatti che si svolgono in profondità, trasportando chi legge nei rivoli, nelle tragedie e nelle imprese delle sedici corde e dell’Italia novecentesca. Nei suoi momenti gloriosi e in quelli di infamia.

Nelle prime ore del mattino del 25 settembre 2005 Federico Aldrovandi, giovane ragazzo ferrarese di appena 18 anni, sta tornando a casa dopo una serata passata in un locale bolognese con alcuni amici per una serata come molte altre. Purtroppo Aldro a casa non ci tornerà più perché verrà letteralmente massacrato di botte (le foto del corpo del giovane, in questo senso, lasciano ben pochi dubbi su quanto accaduto) da quattro agenti della Polizia di stato in un parco sito in viale Ippodromo nella città degli Estensi.
La morte di Federico rientra a pieno titolo in quella categoria che si può riassumere con “morto per colpa dello stato” in cui l’operato delle forze dell’ordine è coperte da molte ombre. Federico Aldrovandi purtroppo non è la sola vittima di questa violenza: è lunga infatti la lista di giovani massacrati da chi, almeno sulla carta, dovrebbe proteggere i cittadini.