Nel profondo Sud, proprio all’altezza del tacco dello Stivale, c’è una delle...
Immaginate di ritrovarvi a essere il portiere di una squadra che quasi...
Meglio tardi che mai. È proprio il caso di dirlo. Specie se il ritardo più...
A poche ore dalla proclamazione del futuro o della futura presidente degli...
Lo sport popolare si distingue dalle forme sportive istituzionalizzate e...
Insegnando italiano in una scuola media, tendenzialmente ci tengo affinché...
Nel profondo Sud, proprio all’altezza del tacco dello Stivale, c’è una delle primissime realtà che si è cimenta nell’avventura del calcio popolare, ma che al tempo stesso non esaurisce la propria forza propulsiva sul rettangolo verde per i canonici novanta minuti. Infatti, come abbiamo avuto modo di vedere in passato, attraverso progetti come “Calcio senza confini” con la No-Racism Cup, un rapporto viscerale col proprio territorio e una pratica concreta e continua dei principi di “autogestione”, “antirazzismo” e “collettività” che hanno ridato ossigeno e slancio a una visione della militanza politica, lo Spartak Lecce si è rivelato un modello a cui ispirarsi per avviare un percorso sportivo dal basso, capace di coinvolgere sempre più gente e di andare a fondo nelle contraddizioni del sistema calcio italiano.
Immaginate di ritrovarvi a essere il portiere di una squadra che quasi inaspettatamente è arrivata in finale di Coppa dei Campioni, di affrontare una squadra del Paese che ospita il match e di essere ampiamente sfavoriti, per di più in uno stadio pieno quasi nella sua totalità di tifosi avversari che si sentono già il titolo in tasca. Adesso immaginate di resistere per ben centoventi minuti e – come se non bastasse – successivamente di parare quattro rigori su quattro, regalando il primo trofeo di prestigio non solo al proprio club e neanche alla propria nazione, ma a tutto un universo concettuale e a un modo differente di vedere il calcio, ma anche e soprattutto la vita.
Meglio tardi che mai. È proprio il caso di dirlo. Specie se il ritardo più che trentennale riguarda la morte di un ragazzo di ventisette anni. L’ultimo capitolo giudiziario sulla morte di Denis Bergamini è la prova di come sia sempre possibile riscrivere una verità processuale anche dopo anni di distanza. 35, per l’esattezza. Piú di tre decenni per giungere a un primo – ma comunque fondamentale – verdetto: Denis Bergamini è stato ucciso. La revisione di un processo archiviato (oggi è possibile affermarlo) troppo frettolosamente come suicidio non sarebbe stata possibile senza la tenacia della famiglia Bergamini. Di Donata, in primis. Una donna caparbia che ha sempre lottato per fare luce su quanto accadde a suo fratello quel maledetto 18 novembre 1989.
A poche ore dalla proclamazione del futuro o della futura presidente degli USA, con le elezioni americane che entrano nell’ultimo miglio, sembra utile riflettere su un aspetto peculiare della campagna elettorale di Trump: quello relativo al ruolo degli sport da combattimento. Una riflessione che su queste pagine proviamo a portare avantialmeno dal 2019.