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Sulle rive dell’estuario del Clyde si consuma la rivalità calcistica per eccellenza, quella che sublima tutte le caratteristiche di un derby. Le contiene tutte, e le moltiplica tra loro. Cattolici contro protestanti. Irlandesi contro lealisti britannici. Socialisti contro fascisti. Proletari contro borghesi, anche se ovviamente lo scorrere dei decenni ha fatto sì che quest’ultima frattura non sia più del tutto netta. Sono le uniche due squadre di peso della città, e in realtà dell’intero campionato. Su 122 edizioni disputate i Rangers hanno 54 titoli e 30 secondi posti, il Celtic 49 titoli e 31 secondi posti. L’Old Firm quindi è anche, praticamente ogni anno, la sfida-scudetto. Nessuno degli altri grandi derby del mondo somma tutti questi elementi. A Belgrado, l’appartenenza nazionale e religiosa accomuna le due fazioni. A Buenos Aires la rivalità si basa più che altro sull’appartenenza di quartiere, e poi non ci sono solo due squadre importanti, ma molte di più, così come a Londra o Rio de Janeiro. Tutti gli altri derby europei poi, per quanto affascinanti, si attestano su un livello di tensione comunque decisamente inferiore.
La prima cosa che bisogna dire riguardo “Yallah!Yallah! Calcio, passione e resistenza” è che non si tratta di un film, bensì di un documentario. I registi (Cristian Pirovano e Fernando Romanazzo, argentini impegnati per la prima volta in una co-produzione cinematografica argentino-palestinese) hanno sapientemente – per chi scrive – scelto di non seguire la vicenda di un singolo protagonista ma di sette diverse persone impegnate a vario titolo nel calcio (giocatori, allenatori, dirigenti palestinesi della FIFA, tifosi di squadre di calcio locali). Più che di una trama specifica, quindi, si può parlare di un intreccio di quotidianità. Un mescolarsi di vite diverse, con diverse ambizioni e speranze ma segnate da un presente comune. Il racconto, però, non si svolge sotto la nube scura della rassegnazione. Nella difficoltà il sottofondo è di speranza, di resistenza a un’oppressione che va avanti ormai da decenni. La voglia è quella di guardare avanti, di inseguire il proprio sogno sportivo o semplicemente lottare per una vita dignitosa e, soprattutto, libera nella propria terra.
Il 2019 è il trentesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino, vale a dire di ciò che avrebbe dovuto segnare l’inizio di una nuova storia, fatta “di ponti sull’umanità e mai più di muri”. Quanto queste affermazioni pregne di ottimismo a dir poco affrettato e faziosità si siano rivelate nient’altro che retorica è ormai sotto gli occhi di tutti, così come lo sono i nuovi muri che in questo infausto trentennio si sono moltiplicati, dagli Stati Uniti al Nord Africa, passando per l’Ungheria e ovviamente la Palestina, il tutto accompagnato dall’inquietante ignavia di chi in precedenza si autonominava paladino dei diritti umani.
Fortunatamente, dove non arriva la diplomazia internazionale, ci pensa la libera e spontanea azione di associazioni e singole persone a rompere l’isolamento e spesso la leva usata per scardinare questo status-quo è proprio lo sport, come nel caso di “Boxe contro l’assedio”, un progetto nato nel settembre 2018 a opera dell’ONG siciliana CISS e della Palestra Popolare di Palermo che ha consentito al “nostro” Giancarlo Bentivegna di essere il primo pugile professionista a entrare a Gaza, e che successivamente è stato esteso anche a due palestre popolari romane, la “Valerio Verbano” del Tufello e quella di Quarticciolo che hanno partecipato alla seconda spedizione, partita alla metà di gennaio, con tre tecnici, Giulio Bonistalli e Carlotta Bartoloni della “Verbano” e Giovanni Cozzupoli della Quarticciolo.
Sicuramente sarà un giudizio soggettivo dovuto al fatto che la squadra del cuore (se non dell’anima) del sottoscritto vi abbia passato quasi ininterrottamente l’ultimo trentennio, ma sono cresciuto acquisendo la consapevolezza che la serie C fosse la dimensione ideale per vivere il calcio nel nostro paese.
In fin dei conti essa ha rappresentato una via di mezzo, il giusto compromesso tra il calcio mainstream fagocitato dallo show-business e dagli ingaggi spropositati di serie A e serie B e il calcio (semi) dilettantistico con tutta la sua miriade di squadre sconosciute o quasi, e poi la suddivisione per aree geografiche e l’alta densità di “nobili decadute” regalava partite spesso più avvincenti sugli spalti che in campo, con cornici di pubblico che erano il vero punto di forza della categoria incarnando la vera essenza popolare di questo sport e il campanilismo, tratto distintivo del nostro paese. E anche negli ultimi anni, a parte le sfide da bollino rosso, con un po’ di “creatività” si riusciva ad aggirare i vari divieti e limitazioni. Inoltre il fatto di passare di domenica in domenica dall’impianto che fino a poco tempo addietro aveva ospitato la serie A e le sue stelle, al campo in terra battuta della neopromossa di turno, poteva rappresentare benissimo quel passaggio da miseria a nobiltà andata e ritorno, metafora inossidabile della vita.