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L’impressione di molti è che la Colombia abbia abbandonato troppo presto questi Mondiali per il potenziale che aveva a disposizione, vittima forse della sfortuna per via dell’infortunio del loro uomo più rappresentativo James Rodriguez, o secondo qualcun altro per colpa dell’arbitraggio nell’ottavo di finale contro l’Inghilterra, comunque i “cafeteros” hanno venduto cara la pelle facendosi valere, come pure attestano le migliaia di persone che hanno ugualmente atteso il rientro della nazionale a casa per tributargli comunque un ringraziamento per non essersi risparmiati e aver onorato il paese.
Per il secondo anno di fila le realtà dello sport popolare romano e non solo hanno unito sforzi ed economie per permettere alle ragazze dello Youth Palestine Club, squadra di basket femminile del campo profughi palestinese di Shatila (Beirut, Libano), di tornare a Roma per la nuova edizione di Basket Beats Borders, progetto ideato da Daniele Bonifazi e David Ruggini, con l’attiva collaborazione dell’All Reds Basket Roma, dell’Atletico San Lorenzo e de Les Bulles Fatales.
Una nuova gara di solidarietà ha permesso, tra crowdfunding ed iniziative di autofinanziamento, di far sì che dal 30 giugno al 4 luglio una decina di ragazze tra i 15 e i 20 anni, guidate da coach Majdi Adam, abbia potuto confrontarsi con altre atlete animatrici del basket popolare romano e proseguire il reciproco scambio di esperienze, di culture, differenze e affinità avviato lo scorso anno.
Il quarto di finale di domani tra la Russia e la Croazia è senza dubbio molto interessante e pieno di spunti di riflessione. Tralasciando solo per un attimo gli aspetti meramente agonistici, quello che forse non viene debitamente tenuto in conto è l’astio che divide questi due popoli (d’altronde, prima che la mannaia della “normalizzazione preventiva” voluta da Putin calasse sul mondiale, i russi avevano indicato proprio nei croati uno dei loro principali bersagli da colpire, subito dopo gli inglesi in un’ipotetica scala gerarchica delle priorità). Il motivo è dovuto principalmente a quel sentimento di solidarietà reciproca che lega la Russia alla Serbia in nome di una comune matrice ortodossa ancora prima che (pan)slava, che ha visto varie volte nel corso dei secoli Mosca correre in aiuto di Belgrado quando questa veniva minacciata dagli Ottomani o dagli Asburgo, e anche durante la Seconda Guerra Mondiale questo legame speciale di solidarietà si manifestò in una variante comunista quando il Movimento di liberazione Jugoslavo (unico a liberarsi senza l’aiuto di un esercito alleato), passò all’azione in seguito all’invasione nazista dell’Unione Sovietica. Noi, riprendendo un articolo del portale francese “Footbalski”, decliniamo questo rapporto fraterno all’interno del mondo delle curve, aggiungendo anche un ulteriore tassello, vale a dire la Grecia, altro baluardo ortodosso dell’Europa orientale.
Una delle poche costanti della mia vita è che quando mi ritrovo a prendere decisioni d’istinto, frutto del momento, successivamente me ne pento sempre e devo ammettere di avere pensato a ciò anche la notte di venerdì scorso, quando ho maturato la decisione di andare a Quarto. In fin dei conti ero stato a Napoli quattro giorni prima a chiusura di un periodo in cui per vari impegni ho fatto su e giù per la penisola senza sosta e la cassa di autofinanziamento di sport popolare langue.
Fortunatamente, ogni regola per essere tale deve necessariamente avere un’eccezione e nel mio caso si è trattata proprio di questo viaggio, perché nonostante tutto, le parziali giustificazioni appena elencate non potevano né risparmiarmi dai rimorsi se fossi rimasto a casa e nemmeno essere un concreto contrappeso alla voglia di andare a salutare il Quartograd, la sua tribù e tutte le altre realtà presenti.