Il 10 agosto del 1980, sbarca a Roma il “Divino” Paulo Roberto Falcão. La rievocazione di quella giornata è affidata alla penna dello scrittore Alessio Dimartino e al suo “Falcão. L’ottavo re di Roma”, biografia letteraria dedicata al campione brasiliano: uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi ma soprattutto, nel libro di De Martino, pubblicato dalla Perrone nella nuova collana “Fuoriclasse”, occasione per tornare con la storia e con la memoria in un tempo in cui tutto ciò che accadeva intorno a un pallone poteva chiamarsi in tanti modi, tranne che “calcio moderno”.
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Mio padre quel mercoledì decise di portarci al mare da zia Teresa, che aveva una villetta bifamiliare abusiva nell’entroterra di Maccarese. Si prese un giorno di ferie, quel mercoledì, mio padre, perché noi di solito le vacanze le facevamo a luglio e lui i trenta canonici se li spendeva lì. Andavamo a Grottammare, vicino San Benedetto del Tronto. Un posto tranquillo, per famiglie. Pensa, ci vado ancora oggi. Comunque, quella mattina partimmo direzione Maccarese. Mia madre e mia sorella erano elettrizzate per questa scampagnata fuori programma. Mio padre invece era stranamente taciturno. Non che fosse un chiacchierone, ma di solito in contesti vacanzieri si lasciava un po’ andare. Quel giorno no. Concentrato sulla guida, accigliato, muto. Allo svincolo per Maccarese tirò dritto. Mia madre protestò, lui disse che s’era distratto, che saremmo tornati indietro all’altezza di Fiumicino. Avvicinandosi all’aeroporto il traffico s’intensificò parecchio. Le auto mostravano appese ai finestrini svariate bandiere giallorosse. Mia sorella iniziò a frignare, mia madre guardò mio padre con lo sguardo sbieco da ‘non pensare che non abbia capito, maledetto stronzo’. Guidò come un automa, parcheggiando in coda a una moltitudine infinita di macchine a circa un chilometro dagli arrivi internazionali. Finalmente mia madre chiese cosa stesse accadendo. Torniamo subito, rispose mio padre con voce metallica. E poi a me: vieni, andiamo.
Lo sapevo cosa stavamo facendo. Non ero un cretino. E soprattutto ero forse più romanista di mio padre. Stavamo andando a comporre il comitato d’accoglienza per Paulo Roberto Falcao.
Quando sbucò fuori dalle porte scorrevoli degli arrivi internazionali con quel sorriso timido da ragazzo perbene, spaesato da tanto immotivato affetto, i riccioli biondi scarmigliati dal lungo viaggio, io ero lì, a un metro. Lavorando di spalla, da buon rugbista, ero riuscito a penetrare in prossimità del cordone di polizia. Allungai una mano, prima che un pulotto me la schiaffeggiasse, e gli sfiorai i capelli. Presi tra le dita per un secondo quei riccioli biondi. Non erano mica così i brasiliani che eravamo abituati a immaginare a Roma. Non avevano i riccioli biondi. Intorno a quel ragazzo dinoccolato, dall’andatura languidamente aristocratica, gravitava un’aura così prepotentemente straniante rispetto al nostro immaginario collettivo, che un brivido scivolò lungo la spina dorsale dei tifosi presenti all’aeroporto. Lo sentivi proprio contare le vertebre della schiena, quel dito gelido. E sapevi che il vicino aveva percepito la medesima sensazione nel medesimo momento. Quel ragazzo avrebbe fatto accadere qualcosa. Qualcosa di magnifico. Piede divino tocca terra puttana, disse un signore anziano vicino a me, fissando con espressione estatica un punto imprecisato oltre la chioma del brasiliano. In tanti anni non sono ancora riuscito a dargli torto.
Devi considerare che a quei tempi non era come oggi, non avevamo youtube dove vedere il gol di tacco in allenamento di un sedicenne che gioca nel più sperduto buco di culo della Patagonia. C’erano il Corriere dello Sport, il notiziario sportivo della RAI e le cazzate che la gente montava da quelle scarne fonti d’informazione. Si diceva che Viola volesse prendere Zico, ma all’ultimo fu convinto da Liedholm a virare su Falcao, secondo il Barone più utile alle sue trame di gioco. E quando si sbagliava, il Barone. Se capitava voleva dire che l’aveva fatto capitare. Per il gusto di prendere per il culo i giornalisti. E comunque considera che eravamo in cinquemila a Fiumicino per Falcao. Non si conosceva bene, era percepito come un ripiego rispetto al più celebrato Zico. Zico segnava, segnava tanto. Falcao no. Sì, sapevamo che aveva vinto tre campionati con l’Internacional di Porto Alegre e che lui personalmente era stato votato da una rivista per due volte miglior giocatore brasiliano dell’anno, ma insomma…ed eravamo in cinquemila. Un caldo della madonna, il dieci di agosto. Il dieci agosto dell’ottanta. Ma considera che a quei tempi non era come oggi.
Poi comunque ci siamo andati, a Maccarese da zia Teresa. Gli uomini di casa un po’ più contenti, le donne un po’ più incazzate. Neanche le folli feste di Briciola, la bastardina maculata con le mollette in testa, cenciosa dama di compagnia della zia, fu sufficiente a tirarle su.
Alessio Dimartino – Roma