Direttamente dalle pagine del primo numero di UNO-DUE, la nuova rivista-libro dedicata al mondo del calcio in senso storico, sociale, politico e culturale, un bel contributo di Nicolò Rondinelli, stimato autore di Ribelli, sociali e romantici. FC St. Pauli tra calcio e resistenza (Bepress, 2015). Oggetto dell’articolo, la Germania di Lӧw, capace di vincere in Brasile il quarto titolo mondiale tedesco, ma soprattutto di raccogliere il «frutto di una politica pluridecennale di valorizzazione dei giovani, e di uno spirito di coesione totale, non solo a livello calcistico».
Una vittoria globale. Un sapore di rivincita, dicono in molti. La Germania di Götze, Müller e Neuer, orchestrata dal bravo Joachim Löw, ha fatto terra bruciata in una terra già martoriata da speculazioni e relative proteste. Silenziosa, sobria, quadrata e compatta com’è suo abituale uso. Una corazzata con un’età media pari a 26 anni e 114 giorni, frutto di una politica pluridecennale di valorizzazione dei giovani calciatori.
È nel 2001 infatti, dopo il flop agli Europei belga-olandesi, che nasce e si sviluppa un progetto della DFB, la lega calcio tedesca, con l’introduzione dell’obbligo per tutte le società di Bundesliga 1 e 2 di avere una compagine in ogni categoria giovanile a partire dagli under 12. Il mancato rispetto di questo vincolo avrebbe comportato la revoca della licenza di partecipazione al campionato. Ben 820 milioni di euro sono stati così destinati alle accademie del calcio, assieme a un fondo comune creato dalla Federcalcio tedesca per aiutare i club con meno risorse a ottemperare a questa regola. La sinergia tra istituzioni calcistiche e sportive, scuole, gli Stützpunkte (i punti di raccolta locali della DFB per i giovani calciatori), i Leistungszentren (i centri di formazione) e i relativi settori giovanili dei club ha finora contribuito a garantire un’educazione olistica, improntata su sport e cultura. Con i piedi per terra. Chi emergerà e avrà fortuna nel mondo del calcio che conta non sarà tanto meglio di chi si “accontenterà” di un buon impiego e di un posto significativo nella società. Calcio e vita vanno infatti a braccetto in Germania.
La Mannschaft ha saputo inoltre mescolare e attingere al serbatoio multiculturale della società tedesca anche in ambito calcistico. Il turco Mesut Özil accanto a Sami Khedira, con padre tunisino. E ancora Jerome Boateng, papà ghanese e mamma tedesca, con il ventiduenne difensore doriano Shkodran Mustafi, di origini albanesi ma cresciuto ad Amburgo. Senza dimenticare i decani di lusso, Miroslav Klose e Lukas Podolski, e le loro radici polacche.
È stata una rivincita, dicevamo. Il posizionamento della nazionale tedesca tra le 4 finaliste degli ultimi quattro campionati mondiali non è stata a tal proposito casuale. Il suo valore sportivo ma anche e soprattutto eminentemente sociale ha radici storiche ben salde. Un paese più volte abbattuto, con le ferite e i cerotti delle due guerre mondiali e dell’orrore del regime nazista che hanno in un certo senso risvegliato la coscienza sociale della popolazione. Un campionato mondiale, quello del 1962 in Cile, che ha messo alla berlina il poco incisivo calcio della rappresentativa teutonica. E da lì una prima svolta, quella del professionismo calcistico con la nascita della Bundesliga nel 1962, a sancire la voglia di rivalsa e di tornare competitivi in campo internazionale.
E dire che il Fussball all’inizio pareva un corpo estraneo tra coloro che si definivano come i detentori dell’etica fisica per eccellenza, i Turnen, le associazioni dei ginnasti. Nella seconda metà del XIX secolo infatti nelle lande teutoniche il calcio era definito come la “malattia inglese”, considerato una faccenda elitaria, individualista e priva di qualsiasi valore etico o filosofico. Il Fussball rimase inizialmente in una dimensione sotterranea, diventando uno sport di massa solo dopo la sua diffusione tra le classi lavoratrici urbane.
Ma il professionismo in realtà non ha mai intaccato del tutto i valori sportivi e di partecipazione sociale che a oggi vedono 8 milioni di persone, di cui quasi il 20 per cento composto da donne, regolarmente iscritte ad associazioni sportive come praticanti. Dalla pallamano all’hockey, dalla podistica al rugby. Un punto significativo di rivalsa anche questo.
Il vero successo del calcio e di riflesso di tutto il panorama sportivo tedesco, è la simbiosi esistente tra club, federazioni, rappresentative nazionali e tessuto sociale. Una cornice culturale ben precisa, fatta di partecipazione e supporto attivo. La stragrande maggioranza delle società sportive tedesche è strutturata secondo il modello EV, Eingetragener Vereine, associazioni regolarmente registrate di proprietà dei soci-tifosi, soggetti con diritto di voto e di decisioni gestionali e organizzative. E ciò non riguarda solo i club minori, ma anche il Bayern Monaco, forte dei suoi 300.000 soci, così come Schalke 04, Borussia Dortmund, Amburgo e via dicendo. Associazioni polisportive, per di più, tutte sotto l’egida del club di riferimento.
Con la riunificazione calcistica delle due Germanie negli anni ’90 il modello generale di governance del calcio nazionale è stato in parte ridiscusso, in ogni caso con l’ago della bilancia pendente verso la componente sociale dei club. La DFL ha deciso infatti di avallare l’integrazione delle sezioni calcistiche professionistiche dei club in società per azioni esterne a responsabilità limitata, separate dal nucleo fondativo dei soci, con la possibilità di attrarre anche investitori privati per accentuare il carattere commerciale e competitivo. La maggioranza delle quote delle società a responsabilità limitata, ovvero almeno il 51 per cento, avrebbe dovuto in ogni caso essere detenuta da associazioni registrate di soci dei club, EV per l’appunto, con potere decisionale sulla scelta e sulla nomina degli organi sociali. È il fantomatico sistema “50+1”. Per la serie: va bene essere competitivi, ma il calcio resta oggetto di proprietà dei tifosi.
Grazie a questo modello organizzativo la Bundesliga si conferma da anni come un esempio di bilanci economici attivi. Il sistema delle licenze contribuisce in tal senso, con l’obiettivo fondamentale di garantire la stabilità, l'integrità e la continuità delle competizioni. Gli stipendi dei calciatori professionisti sono altresì genericamente più bassi rispetto alla media europea e la connessione tra il calcio professionistico e quello dilettantistico è molto più forte, grazie alla presenza delle sezioni amatoriali all’interno delle stesse società sportive. Del tipo: sono un tifoso e socio del Bayern Monaco e posso partecipare a una delle decine di sezioni calcistiche che militano, ad esempio, nella categoria corrispondente alla Promozione italiana. Quando tifare per una squadra equivale davvero ad appartenere alla stessa.
E il supporto fa certo la differenza. I tifosi seguono, organizzano e gestiscono le istanze dei rispettivi club anche in un’accezione sociale. I 49 Fanprojekte (progetti per i supporters) nati sull’esempio dell’esperienza delle 2 compagini amburghesi dell’Amburgo, ma più in particolare del “Fanladen” del FC St. Pauli, contribuiscono attivamente alla diffusione di valori positivi e di solidarietà, come la lotta alle discriminazioni e la rivendicazione dell’appartenenza del calcio alla gente contro le derive commerciali.
Oggi gli stadi tedeschi hanno i prezzi dei biglietti più bassi d’Europa, la più alta media di presenze sugli spalti, politiche sostenibili di trasporti pubblici, diritti televisivi più equi in favore di una maggiore copertura da parte dello stato (in parte compensata da un aumento delle sponsorizzazioni), la tolleranza al consumo di birra, il sostegno alla cultura delle Standing Terraces e stadi con bassa incidenza di scontri tra le tifoserie.
E il sistema calcistico tedesco persevera silenzioso. Forte di una base sociale che ne legittima la potenza. A cui i vari Schweinsteiger, Schürrle e Lahm sono in gran parte debitori per il loro successo all’ultimo Mondiale.
Deutschland über alles dunque; almeno a livello calcistico e senza implicazione alcuna con patriottismi vetusti. Anche se quell’alles, “tutti”, fa parte in realtà dello stesso livello di Deutschland: uniti e dal basso si vince. E i tedeschi lo sanno molto bene.
Nicolò Rondinelli, Milano – Novara
Si ringrazia la redazione di UNO-DUE: www.uno-due.it