In uscita in questi giorni per l’etichetta Hellnation Libri – Red Star Press, “La guerra del pallone” di Gabriella Greison (http://bit.ly/1Pkiozx) racconta storie di vita e di calcio in Palestina. Pubblichiamo l’introduzione al volume firmata da Roberto Vecchioni, noto non solo per brani come “Samarcanda” o “Luci a San Siro”, ma anche per aver parlato di Palestina in due canzoni, riprese in questo pezzo: “Shalom” e “Marika”.
Era il 2002 quando è uscita la mia canzone “Shalom” (fa parte dell'album “Il lanciatore di coltelli”, EMI), raccontava di un ragazzo israeliano che si faceva delle domande. La sua, era una presa di posizione netta, precisa, rispetto alle idee integraliste della sua famiglia. Era un ragazzo che pensava, che ragionava con la sua testa, e quindi - per questo motivo - si faceva delle domande. Il testo della canzone era molto costruito, molto profondo: era una sorta di volo, di allargamento delle solite vedute politiche su quest’argomento. Era un segnale, che avevo voluto lanciare, come dire: esiste sempre un altro punto di vista sulle cose. Basta girarsi, basta cambiare prospettiva. È dovere di un intellettuale far vedere ogni prospettiva. Io uso le parole, per dire qualsiasi cosa: le canzoni sono un prolungamento dei miei pensieri. Le canzoni, come i libri, servono sempre a questo scopo.
Il testo era chiaramente un invito al dubbio, al porsi delle questioni. Non soltanto per noi, per loro. Era un invito alla pace. Perché anche così si contribuisce.
C’è un tempo per combattere / e un tempo per sognare / un tempo per raccogliere, / uno per seminare; / e un tempo per andarsene / ora quel tempo è mio, / arrivederci, padre, / illuminato da Dio. / Un dio che sollevava il mare / come una punizione, / per distinguere gli altri uomini / dalla sua vera nazione: / ma padre, qui, c’era un popolo, / piantato nella terra, / e la terra non può darla Dio, / ma la fame, l’amore di averla. / Come mi pesa questo canto, / padre, tu non sai quanto! / Ma non lo senti che è più forte / la vita della morte? / Shalom, padre, shalom, io vado via.
“Shalom” non ha fatto tanto chiasso, non tanto quanto “Marika”, uscita due anni dopo (dall'album “Rotary club of Malindi”, 2004, Sony). Marika era una bombarola palestinese e io la cantavo. Ha avuto tante critiche, non è stata capita. Io cantavo, ancora una volta, il pensiero, la vita, la voglia di pace. Un punto di vista, ancora un altro, ancora diverso. Era importante cantarla.
Canta Marika canta siamo i tuoi occhi / siamo il tuo sorriso, canta che Dio ti guarda / che anche sulla terra c’è il paradiso, / stringiti forte il fiore che porti sotto il vestito nero, / volano duri petali per ricoprire il mondo intero / non la tua terra, non il nostro cielo. / Non vedrò più la mia terra, non vedrò / i colori del mio cielo, l’albero che mi chiamava / sulla via di scuola e rispondevo, / il quaderno delle cose / quelle che scrivevo a me sola; / vola il tempo vola, qui che sono sola.
Ho cantato, in un disco non politico, una situazione personale di conflitto. Lei, una ragazza palestinese. E la mia storia non fa certo pensare che sono dalla parte dei terroristi. Nella canzone precedente c’era un ragazzo israeliano protagonista. Nessun appoggio a questo o quell'altro estremismo, sia chiaro: le canzoni servono per segnare la cronaca. Le canzoni servono per dettare i tempi e mettere la punteggiatura sugli argomenti di attualità. Le canzoni servono, i libri servono, tutto serve, tutto contribuisce. Non sei attivista, sei solo un intellettuale. Per questo sono necessarie le tue parole, scritte o cantate. È il motivo per cui un libro come questo è utile, è necessario. Contribuisce a una nuova apertura. È sufficiente arrivare a un piccolo numero di persone, non per forza alla massa: se ne trovi uno, due, tre che ti dicono che sì, hanno capito quello che stai trasmettendo, allora hai vinto.
Un libro così, è un segnale che si lancia. Non di parte. E non importa se qualcuno non condivide tutto, o se qualcuno lo userà per attaccarti. Hai solo raccontato un pezzo di storia, quello che hai visto, quello che non hanno raccontato altri. Scrivere è faticoso, se ne senti l’esigenza così forte addirittura da completare un libro, è solo perché è necessario che ci sia, e rappresenta un nuovo messaggio. È così difficile recepirli al giorno d’oggi, c’è così tanta spazzatura che gira. Ci sono sempre meno ascoltatori. Ci sono sempre più distrazioni di massa, figli di dogmi precostituiti, e luoghi comuni che addormentano le coscienze. C’è sempre qualcuno che usa questo o quell’altro messaggio per fini personali. Se ti attaccheranno è perché saranno loro ad avere la coda di paglia. Hai fatto bene a scrivere un libro così, sei stata cronista e intellettuale. E coraggiosa. E c’è l’elemento calcio che rende perfettamente l’idea della potenza di questa scrittura.
Perché il calcio è la metafora perfetta: arrivare a una vittoria, significa prima aver lottato, prima aver sofferto, prima aver perso. Non vinci se non hai toccato il fondo, se sai cosa vuol dire sprofondare. Il calcio ha una forza come nient’altro al mondo, per questo io sono sempre molto incuriosito da questo sport, oltre che tifoso. Il calcio è un’enorme immagine che viene tradotta in tutte le lingue nel momento stesso in cui si guarda. Non ci sono sottotitoli, per il calcio. La lingua è una e una soltanto. Perché l’attaccante ha un significato. L’arbitro ha un significato. L’allenatore ha un altro significato. Chiunque di noi, nella vita di tutti giorni, a volte è un arbitro, a volte un attaccante, a volte un allenatore, a volte un semplice raccattapalle. A seconda del momento, delle situazioni. E tutti lo sappiamo. Noi, amanti del calcio.
Il calcio è fatto di simboli evidenti a tutti. Ed è fatto per tutti. Per questo, in una terra come la Palestina, assume un nuovo significato: va oltre il terreno di gioco, non è solo un gioco, è di più di un gioco. Supera barriere, congela prese di posizione politiche, vaporizza distanze. La necessità di un libro così è traducibile in un'immagine: raccontare quelle terre tramite il calcio, è come fare la sentinella davanti alla porta che porta alla pace. Io non sono mai andato in quei posti, tu ci sei stata, eri obbligata a scrivere un libro così. E sei stata brava a farlo.
Roberto Vecchioni
(Testo raccolto il 30 agosto 2015 a Santo Stefano Belbo)