Nei prossimi giorni l’etichetta Hellnation Libri – Red Star Press manda in libreria “Gruppo d’Azione. Sovvertire l’ordine – Creare il caos”, (http://bit.ly/1Ozq5hZ) scritto da Alessandro Casolari e da Filippo Landini per raccontare la storia e le gesta della “prima linea dei tifosi della Spal”, la storica squadra della città di Ferrara. Insieme agli immancabili scontri con le forze dell’ordine e le tifoserie avversarie, “Gruppo d’Azione” raccoglie la memoria di una “generazione a delinquere”: giovani e meno giovani travolti dal trionfante edonismo scaturito dagli anni Ottanta, eppure decisi ad affermare con ogni mezzo necessario la propria negatività rispetto a un’ideologia che pretende di spacciare quello in cui viviamo come “il migliore dei mondi possibili”… in attesa dell’uscita del libro, pubblichiamo in anteprima un capitolo del libro. Si intitola “Colpire tutto, educare nessuno” e parla del giorno in cui lo striscione del Gruppo d’Azione fa il suo esordio. Siamo a Padova ed è il 2 novembre del 1986…
Colpire tutto, educare nessuno
Padova, 2 novembre 1986. L’esordio del Gruppo d’Azione. Lo striscione blu lungo una ventina di metri, con la scritta bianca e i due martelli della working class in mezzo, viene alzato e sorretto davanti alla stazione dei treni di Ferrara. Il Gruppo d’Azione era stato fondato in ottobre e la vernice bianca era stata stesa sulla tela in un ampio spiazzo lungo le mura della città. La trasferta a Padova è una chiamata alle armi, la nebbia avvolge ogni cosa, il freddo regna. I cinquecento ragazzi presenti capiscono chi, da quel momento, avrebbe fatto parte dell’ala militare della Curva Ovest. Si sale sul treno, le forze dell’ordine si posizionano nell’ultimo vagone e controllano a distanza. Da Ferrara a Padova con un interregionale per Venezia o forse Trieste. Un treno normale con la gente della domenica. A Ferrara salgono centinaia di sballati carichi come delle mine. La questura sale sia in divisa sia in borghese. Trasferta da codice rosso, livello di Modena, Lucca, Vicenza, Trieste. Il solito viaggio-delirio a base di alcol e droghe varie. Mentre il treno attraversa un grigissimo Po, una coppia di anziani bolognesi diretti a Venezia a visitare la figlia, si ritrova circondata da una decina di adolescenti ferraresi che accendono cilum a ripetizione e li avvolgono in una nube. Tutto il vagone si riempie di fumo. «Aprite almeno i finestrini», urla un ferroviere veneto in turno di riposo.
Padova, cielo plumbeo. Stazione. Un boato a cinquecento voci scuote l’ambiente. Gli sbirri di Ferrara rimangono distanti, lasciano che la massa spallina si diriga verso l’uscita. L’atrio centrale viene disintegrato, panchine che volano sulle vetrate. La farmacia viene letteralmente assaltata, la porta di vetro si sbriciola sotto i colpi di una spranga che mezz’ora prima serviva ai passeggeri del treno come sostegno. Il treno era una fonte enorme di corpi contundenti: corrimano, maniglie di metallo, pezzi dei sedili quali braccioli e poggiatesta. Ma l’oggetto più ambito era il martello rosso frangi vetro da usarsi solo nei casi di emergenza. Dalla farmacia si vedono uscire alcuni ultrà carichi di psicofarmaci (Roipnol, Darkene, Valium) che mischiati agli alcolici diventano un propellente. Intanto, lasciato l’atrio centrale della stazione, un muro omogeneo di divise, caschi e manganelli dà il benvenuto alla “teppaglia ferrarese”. Si tratta del famoso, o meglio, del famigerato 2° Reparto Celere di Padova, destinato al controllo dell’ordine pubblico e quindi pronto allo scontro con chiunque, dagli ultrà ai militanti politici.
La celere di Padova va in tournée in tutta Italia. Ma oggi gioca in casa. Ha già la vittoria in pugno. I loro sguardi, cadenzati dai movimenti dei manganelli che fronteggiano quella massa di stronzi ultrà del cazzo, dicono essenzialmente questo: oggi vi massacriamo, avete rotto i coglioni abbastanza. E gli omini neri? I carabinieri?
Eccoli, defilati, alla sinistra della celere. Defilati ma numerosi e pronti all’uso. Bene. Una bella domenica da ricordare.
I ferraresi iniziano a coprirsi il viso con le sciarpe biancoazzurre. Il silenzio è rotto da un coro di voci e di mani a P38: «La disoccupazione / vi ha dato un bel mestiere / mestiere di merda / carabiniere».
In prima linea non si capisce bene cosa fare. Da dietro arrivano rumori di sfasciate mentre c’è chi preme per proseguire a spinta la gita a Padova. Un dirigente della celere, in borghese ma con il casco in testa e il manganello in mano, fa cenno alla testa del corteo ultrà di dirigersi verso un viale. È l’unica via praticabile, tutto il resto è presidiato dagli sbirri. È la direzione più rapida e meglio controllabile per arrivare allo stadio Appiani. Ma cinquecento persone sono tante, troppe da tenere completamente sotto controllo, soprattutto se tutti i plotoni di sbirri rimangono a debita distanza e controllano solo la testa e la coda del corteo. Quando il viale si restringe in una strada con a lato un portico, la situazione degenera in puro teppismo urbano. Vetri infranti e negozi saccheggiati, motorini incendiati con la loro stessa benzina, automobili sfasciate. L’intera zona è quasi deserta e i poveri malcapitati vengono malmenati. Si urla, si spranga, si sfascia, si incendia…
Inesorabile, l’elicottero degli sbirri si abbassa sempre di più. La celere spara lacrimogeni verso la coda del corteo che indugia a demolire un’edicola di giornali e prendere come trofeo l’insegna de «Il Mattino di Padova». Il resto del Gruppo è già nel piazzale attiguo all’Appiani. Molti ultrà non hanno i soldi per il biglietto dello stadio. O tutti dentro o tutti fuori. Ma il «tutti fuori» è l’ipotesi peggiore per l’ordine pubblico. I capi degli sbirri scelgono il «tutti dentro». L’ingresso è lento. Si passa uno per volta, perquisizione capillare e corridoio di celerini prima di accedere alla curva ospiti. Sguardi di sfida. Te con l’eskimo, gli anfibi e la kefiah ti abbiamo già inquadrato. Quello con il bomber verde e quello con il bomber blu e quello con il bomber arancione, perché lo indossa al contrario, hanno sfasciato un’edicola di giornali. Quello col berretto mi sta sul cazzo e gliela voglio far pagare...
«Dici a me? Non ti piace il mio berretto? Figurati, a me non piace la tua divisa…».
Cielo sempre più livido, pioggia frequente, continui cori violenti contro i padovani e contro gli sbirri. Ovviamente non mancano i cori d’incoraggiamento alla compagine biancoazzurra. La SPAL va in vantaggio. Al gol del pareggio del Padova, tutto lo stadio esulta mentre la curva spallina si riversa sulla rete di recinzione per abbatterla e invadere il campo. Pochi secondi e la celere carica da tre lati: destra, sinistra, frontale. Una grandine di manganellate e anfibiate. Una carica violentissima, prevedibile. Quelli che si erano arrampicati sulla recinzione rimangono fra i tre fuochi della carica. Un massacro. Teste che sanguinano, occhi gonfi, denti rotti. Una sostenuta contro carica permette ai massacrati di rientrare nei ranghi. La celere retrocede, ma rimane a distanza ravvicinata. La violenza dei cori aumenta. Ormai siamo al delirio. Gli ultrà padovani non vengono più considerati, a parte le offese a tutta la loro genealogia. Lo scontro è con la celere. Gli ultrà padovani sono scarsi, non sono come i vicentini o i veronesi. Forse Padova è troppo intellettuale come città, non annovera bestie da stadio come Verona e Vicenza, nemici di tutto rispetto. Con Verona ci si incontrava solo in Coppa Italia, in quegli anni l’Hellas vinse anche uno scudetto, la SPAL era in serie C. Con i vicentini c’era un rapporto più continuo, annuale, e un odio reciproco del tutto condiviso.
Alla fine pareggio: 1-1. Ma la partita è ormai totalmente in secondo piano. La tensione in curva è altissima. La celere sta apprestando uno stadio di tipo cileno. Prima di tutto un tunnel di sbirri con manganelli alla mano fa da filtro per l’uscita. I ragazzi troppo vivaci, una trentina, vengono trattenuti all’interno. Gli altri vengono fatti uscire tra calci e manganellate. Qualche ragazzo però riesce eludere il flipper di botte e sgattaiolare per il pertugio di una recinzione. La trentina dei vivaci viene fermata all’interno della curva e fatta inginocchiare sui gradoni di cemento con le mani incrociate sulla testa. Per tre o quattro minuti, su di loro, fiocca una grandinata di pugni e manganellate, poi anche gli ultimi trenta desaparecidos possono riapparire fuori dallo stadio.
Sulla strada del ritorno, la vendetta. Alla stazione di Rovigo, nel frangente della sosta, mentre gli ordinari passeggeri salgono e scendono dal treno, decine di ultrà spallini, con i sassi presi dai binari, assaltano gli uffici della Polfer. I poliziotti si barricano, tutti i vetri e le tapparelle sono sfondati dalla pioggia di pietre. La gente comune è incredula, spaventata, non si capacita di queste scene di violenza. I ferrovieri, dal macchinista al capo treno, non vedono l’ora di arrivare a Ferrara per defilarsi in fretta. Inevitabilmente alla stazione di Ferrara ci sarebbe stato un consistente numero di forze dell’ordine per proseguire quel gioco al massacro. Attraversando le acque del Po, i ragazzi decidono la mossa da compiere. Superato Pontelagoscuro, quando mancano pochi chilometri alla stazione di Ferrara, all’altezza del quartiere Barco, viene azionato il freno d’emergenza. Il treno si blocca e tutti gli ultrà si riversano fuori dai vagoni, centinaia di ombre lungo le massicciate e quindi giù a scavalcare i recinti di cemento e dileguarsi tra rovi e campi incolti.
La mattina dopo, di lunedì, «Il Mattino di Padova» proponeva il seguente articolo:
ORE 14.20 – La teppaglia ferrarese minaccia l’invasione
(F.C.) – La teppaglia ferrarese, circa 400 delinquenti, si sono presentati all’Appiani con uno striscione azzurro e con una scritta incredibilmente provocatoria: «Squadra d’azione». Questi mascalzoni, con inaudita sfrontatezza, hanno mostrato poi altri due striscioni («Figli di puttana» e «Ci fate schifo»). Prima dell’inizio della partita, hanno provato a scavalcare la rete di recinzione, davanti agli occhi dei poliziotti. Prima e dopo la partita hanno preso di mira autobus di linea con lanci di pietre, provocando molti danni. La Spal ha mostrato in campo una gran bella squadra, pareggiando meritatamente; ha però perduto, clamorosamente la faccia.