Ai tempi dei miliardi di Cr7 e Messi, dei calciatori dal selfie facile e dai tweet bollenti, delle modelle e delle serate in discoteca, la storia di Lev Jašin rischia di abbagliare come un faro nella notte. E non solo perché appartiene a un’epoca lontana che si tinge di contorni mitologici e si confonde fra realtà e leggenda, risvegliando un certo bisogno di “epica” sportiva, ma perché dimostra quanto il calcio possa essere – non solo business e spettacolo – una solida bussola capace di regalare modelli positivi di vita, oltreché far sognare una folta schiera di appassionati.
Per i nati nella seconda metà del Novecento, alla domanda su chi sia stato il miglior portiere di tutti i tempi, la risposta è sempre univoca e scontata: Lev Jašin.
Il portiere sovietico è stato unanimemente riconosciuto come l’estremo difensore più forte della storia, baluardo fra i pali della nazionale sovietica e bandiera della Dynamo Mosca per tutti gli anni ’50 e ’60, ma anche vero e proprio eroe del popolo, secondo per fama solo al cosmonauta Jurij Gagarin, autentico emblema dell’uomo nuovo sovietico.
L’epopea del Ragno nero – questo il soprannome di Lev Ivanovič Jašin – è raccontata con intelligenza da Mario Alessandro Curletto e Romano Lupi in Jašin. Vita di un portiere, uscito per Il Melangolo nel 2014.
Un libro da divorare in un solo boccone, mai pesante, veloce, facile da leggere, che non scade mai nel feticcio del “particolarismo”, “delle piccole cose” ma piuttosto racconta in maniera leggera la vita del più grande numero uno della storia del calcio.
Dall’infanzia in fabbrica durante la guerra mondiale, all’esordio come centravanti, passando per l’esperienza come portiere di hockey – vincitore persino di un campionato sovietico nel 1953 – alla definitiva consacrazione come numero uno della nazionale sovietica, tutto in un denso riassunto della vita sportiva del Ragno nero.
Un uomo pienamente radicato in quella che si potrebbe chiamare essenza dei tempi, perfettamente cosciente del suo ruolo, come ricordano puntualmente Curletto e Lupi: “Jašin, figlio del suo tempo, come da adolescente aveva svolto in fabbrica, al massimo delle proprie possibilità, le mansioni di tornitore, così si comportava nello sport, avvertendo un ulteriore senso di responsabilità nel mantenere alto, non tanto il proprio prestigio di personaggio pubblico, quanto l’onore della propria società e della propria patria”.
Jašin ha insomma rappresentato meglio di chiunque altro il modello dello sportivo socialista, disciplinato e dedito alla causa ma anche fortemente inserito nelle complesse vicende storico-politiche del suo paese e del suo tempo. Non quindi uno sportivo lontano dai “campi di battaglia”, ma piuttosto un uomo impegnato e consapevole, in forte contrapposizione alla visione “borghese” dello sport al di là della cortina di ferro, dove stipendi milionari e vita da pascià rendevano gli sportivi immuni alle contraddizioni della propria epoca, defilati dal centro della storia, lontani dalla vita dell’uomo comune. A suo modo Jašin è stato anche un rivoluzionario: caparbio nelle uscite e bravo con i piedi, è considerato dagli esperti di futbologia il primo portiere moderno, capostipite di una nuova razza di estremi difensori molto meno passivi e più audaci.
Non mancano nel testo di Curletto e Lupi gli aneddoti: come quello in cui il portiere portava in campo due cappelli, uno da calzare e l’altro da lasciare dentro alla porta per scaramanzia. Oppure quando dopo ogni rigore parato, il portiere trovasse e strappasse, un quadrifoglio dalla linea di porta.
Forse l’esperienza in fabbrica – precisamente alla Krasnyj bogatyr – dove si dice si allenasse parando bulloni d’acciaio che il padre gli lanciava dalla catena di montaggio, l’ha reso il fenomeno che tutti conosciamo. Oppure il duro servizio militare (la Dynamo Mosca era la squadra collegata con il Ministero degli interni) gli ha istillato quella proverbiale meticolosità da portiere ossessionato dai suoi errori, come ricordato nel libro.
Quello che è sicuro è che il palmares del Ragno nero, nudo e crudo, fa spavento: oltre 150 rigori parati, un oro olimpico nel 1956, la vittoria agli europei del 1960 e un secondo posto nel 1964. Sei titoli sovietici e tre coppe Urss, anche se il trofeo più scintillante resta il pallone d’oro del 1963. Ancora oggi è l’unico portiere ad aver ottenuto questo riconoscimento e all’orizzonte non sembra esserci nessuno in grado di emularlo.
Lui dietro i pali con il suo completo nero resta immortale.
Filippo Petrocelli