Sono stati davvero tanti gli spunti di riflessione usciti dallʼassemblea romana del 5 gennaio, finalmente molto partecipata sia nei numeri che nella voglia di mettere carne al fuoco. Nel pieno dellʼespansione del cosiddetto “calcio popolare”, i nodi tematici da affrontare sono tantissimi, e senza dubbio si continuerà a farlo in modo collettivo, a partire da questʼestate nelle giornate previste a Napoli. Dopo aver fatto un resoconto il più possibile oggettivo delle discussioni avvenute nellʼassemblea di Roma, proviamo adesso a dare una nostra lettura almeno riguardo ad alcuni aspetti dello sviluppo dei progetti del calcio popolare. Una lettura che va intesa assolutamente come un umile contributo da appassionati di calcio e da compagni che credono nellʼautorganizzazione. Del resto il nostro sito vuole essere proprio questo: un qualcosa in più, un luogo virtuale in cui dare spazio ad esperienze che ci piacciono e ci esaltano. Non certo un “organo ufficiale”, perché per elaborare strategie, campagne e battaglie esiste una sola modalità: quella collettiva.
Un primo nodo delicato sembrerebbe essere quello della contraddizione eterna del competere allʼinterno della Figc. E in effetti è innegabile che di contraddizione si tratti: partecipare ai campionati della Federazione vuol dire riconoscere e accettare come ambito dʼazione questa specie di ricettacolo di corruzione, imbrogli, profitti. Ma chi lotta ogni giorno deve essere capace di vivere nelle contraddizioni e di forzarle come può. Competere in Figc è giusto sia a livello teorico che pratico: a livello teorico perché è proprio nel “ventre della bestia” che va fatto entrare prepotentemente il nostro modo di intendere il calcio, rappresentando un modello vincente in tutti i sensi. E a livello pratico, perché ogni alternativa per sfuggire a queste contraddizioni appare impraticabile, non solo nel breve periodo: innanzitutto, una lega indipendente sarebbe una nicchia, forse addirittura un ghetto. E poi avrebbe ostacoli concreti enormi, a partire dal divario tecnico, per arrivare alla distanza geografica: una trasferta della Spartak Lecce a Padova per affrontare la San Precario appare qualcosa di difficilmente immaginabile, anche in futuro. Nei campionati federali o amatoriali affronti invece squadre della tua città o dei dintorni. Ciò non toglie alcuna validità ovviamente alla scelta di giocare invece i campionati amatoriali: non cʼè alcun bisogno di optare tutti quanti per una scelta univoca, i fattori che qualificano in qualche modo un progetto “popolare” ci sembrano altri, in primis il modello organizzativo, non certo la Lega in cui si sceglie di competere.
Altra questione di grande importanza è quella legata ai migranti e ai loro tesseramenti. Dato per assodato il fatto che abbiamo a che fare con realtà che odiano il razzismo, il problema è però molto concreto, al di là dei valori di ognuno. Le persone che giungono da altre parti del mondo vanno incontro a discriminazioni anche nello svolgere attività sportiva e nel tesserarsi per un club, e questo è senza dubbio un terreno di battaglia che si può affrontare sul piano della lotta, elaborando proposte concrete e strategie per modificare lo status quo. Quella dei migranti non può però neanche diventare una questione totalizzante: alcuni progetti che si occupano esclusivamente di migranti e rifugiati sembrano a volte cadere, con tutta la buona fede del caso, in questa strettoia, ovvero quella per cui la questione del razzismo e dei diritti dei migranti sembra essere di fatto lʼunica importante. Mentre vediamo che molte esperienze di calcio popolare vanno a intervenire su territori ad alta composizione autoctona, spesso sofferente nellʼabbandono delle periferie, e già di per sé questo ci sembra un nodo cruciale, soprattutto per via della fase storica che ci stiamo preparando a vivere, in cui saremo sottoposti ad una contrazione decisa e vigorosa delle libertà personali, in nome di una non meglio specificata sicurezza nelle strade che di fatto non farà altro che affermare un potere poliziesco nei nostri quartieri. Proprio la squadra di calcio popolare, per la particolare conformazione del tessuto sociale italiano, può essere uno dei punti fondamentali dal quale fare partire la nostra opposizione a queste pratiche poliziesche e generare esperienze ulteriori e più avanzate di riappropriazione delle piazze e, in seguito, delle nostre vite. Parlare solo della questione migranti potrebbe risultare in molti casi poco comprensibile, oltre a rischiare di cadere in un buonismo caritatevole che poco appartiene a chi sa di dover affrontare una lotta dura. Del resto, perché perpetuare queste distinzioni concettuali tra “italiani” e “migranti”? Lottiamo per imporre un altro modello di calcio, in cui senza dubbio una delle questioni sarà garantire a tutti e tutte un libero accesso alle competizioni. Ma non corriamo il rischio di schiacciare le questioni su piani poco comprensibili ai più, anzi ribaltiamo la questione: quella che immaginiamo noi è un’azione in sinergia, coordinata tra la varie squadre di calcio popolare in modo che quelle che ormai hanno acquisito notorietà grazie all’attenzione dei media mainstream colgano l’occasione delle loro apparizioni per denunciare le storture che riguardano l’accesso al diritto allo sport per i migranti, che molto probabilmente sono misconosciute dalla gran parte degli appassionati di calcio.
Il punto attualmente più dolente sembra però essere, ovviamente, quello finanziario. I costi sono alti già a livello amatoriale o di Terza Categoria, ma ottenendo successi e scalando i campionati la questione si fa pressoché drammatica. Le scelte possono essere molteplici, ed essendo tutti in una fase sperimentale non ci sembra proprio il caso di mettere troppi paletti o di pronunciare scomuniche nellʼeventualità di scelte discutibili. Siamo nella fase in cui si deve tentare, e casomai sbagliare e fare autocritica, anche con lʼaiuto degli altri. E lʼaiuto si dà con i consigli, non con le scomuniche. La rosa delle possibilità è ampia: lʼazionariato popolare è senza dubbio una strada da intraprendere, anche perché è la più giusta e affascinante, quella di far tesserare e contribuire tutti gli appassionati del progetto. Realisticamente sembra però non poter coprire i costi in modo massiccio, quindi va sicuramente accompagnato in altro modo. Unʼaltra maniera molto “pulita” di finanziarsi sono le feste popolari, le cene sociali e altre iniziative simili, che possono essere fatte nel quartiere o in spazi sociali amici, e oltre che a far cassa servono a costruire quello spirito di comunità che rimane un elemento imprescindibile per progetti simili. Cʼè poi la questione sponsor privati, che alcune squadre adottano da sempre, mantenendone sotto controllo lʼaspetto per così dire “etico”: luoghi di ritrovo dei militanti stessi del progetto, piccole attività commerciali di persone interne o vicine al progetto, e così via. Nulla da ridire fin qui, il problema è che il confine tra uno sponsor accettabile e uno che invece pretende di dettare legge può anche essere molto labile. Altra possibilità è quella di essere legati allʼassociazionismo e al mondo delle cooperative, ed è il caso soprattutto delle realtà concentrate sui migranti. Altro tema ancora è infine quello della possibilità di affacciarsi a bandi pubblici, regionali o europei, per accedere a finanziamenti pubblici, sempre che ce ne siano. Nessuna di queste strade sembra da escludere a priori, la questione sta da unʼaltra parte: tutto sta nella solidità del progetto e nella condivisione effettiva delle decisioni, delle scelte e dellʼeventuale autocritica. È forse proprio questa la cifra che identifica il “calcio popolare”: il fatto che le decisioni si prendono davvero insieme, e anche se si è costretti a dividersi i compiti per avere maggior efficacia, il consenso deve essere totale in ogni scelta che si fa. In questo caso gli errori non sono un problema, perché si rimediano tutti assieme. Non resta quindi che da sperimentare. Altra questione importante è quella posta dallʼAtletico San Lorenzo, che propone di lottare per abbattere alcuni costi, specie quelli dei campi: quello per allenarsi si può anche occupare, perché non deve per forza essere regolamentare, mentre su quello per giocare le partite si può provare a fare vertenza per abbattere i costi.
Invece una questione che ancora non si è materializzata nella sua interezza, ma che, pur non volendo fare assolutamente gli uccellacci del malaugurio, pensiamo che in un futuro non troppo lontano riguarderà da vicino i tifosi delle squadre di calcio popolare, è quella della repressione, come insegnano i recenti casi che hanno toccato gli ultras della Masnada dal Pozzo, e prima ancora quelli della Stella Rossa e di altre squadre. Pur non volendo fasciarci la testa prima di essercela spaccata, bisogna cominciare a ragionare nell’ottica per cui il poco gradito “interesse” delle varie questure italiane avrà come oggetto anche il mondo del calcio popolare, inteso non solo nel suo aspetto prettamente ludico ma anche come veicolo di messaggi che tenteranno di contrastare questo scenario di normalizzazione forzata calatoci dall’alto senza colpo ferire. La speranza è che non si ripetano gli errori che hanno commesso le curve maggiori quando a loro tempo c’era da combattere la repressione, ormai oltre un decennio fa, anche perché il bacino d’utenza adesso è estremamente più piccolo, quindi si rischierebbe davvero l’estinzione. Anzi, proprio perché molte delle “nostre” gradinate sono popolate da reduci da quella stagione (probabilmente dalla parte più pensante…), è necessario che facciano tesoro di tali errori e riescano a elaborare collettivamente soluzioni tempestive e vincenti.
In chiusura, un cenno sulla tematica antifascista, che potrebbe in qualche modo diventare più attuale con il progressivo allargarsi dellʼambito di discussione del calcio popolare. E la questione qui non è quanto le tifoserie o le squadre manifestino il proprio antifascismo, su questo piano tutto è legittimo e ci mancherebbe altro: ci sarà chi lo espliciterà continuamente dando vita a una curva antifascista militante, così come chi si limiterà a sostenere la squadra per 90 minuti. Questione di scelte, anzi chi scrive, per gusto personale, tende a privilegiare il secondo approccio. Il punto è un altro: in quello che si intende per calcio popolare per il fascismo non cʼè posto. Stiamo parlando di un modo di fare calcio che rifiuta i padroni, la speculazione, la prepotenza, le gerarchie rigide, il razzismo, il sessismo, che si organizza con orizzontalità, solidarietà, senza mai volerci guadagnare nulla. Il fascismo è il contrario di tutto ciò, punto. E il problema non è certo, per fare un esempio, se a vedere la partita inizia a venire il signore di destra o la comitiva di ragazzini del quartiere un poʼ “discutibile”, anzi aggregare al di fuori delle solite cerchie è uno degli obiettivi. Ma per gruppi militanti di fascisti organizzati le porte sono chiuse, senza se e senza ma. E conoscendoli, ci proveranno a scimmiottare il calcio popolare spacciandosi per suoi legittimi rappresentanti, come hanno già fatto con i centri sociali o le occupazioni abitative. Dʼaltra parte, avere idee originali non fa parte del loro dna. Ma per loro non ci sarà posto.
Questi erano solo alcuni dei temi che meritavano di essere sviscerati, ma per adesso basta così. Di tempo per riflettere, scrivere, elaborare idee e poi discuterle assieme ce nʼè a volontà, e lʼappuntamento estivo di Napoli promette di essere molto stimolante. Intanto cʼè da tornare in campo a conquistarsi la felicità, e noi non vediamo lʼora di raccontare tante altre partite, che alla fine è quello che ci piace di più.
Matthias Moretti
Giuseppe Ranieri