Da che mondo è mondo, esiste una “storia” ufficiale, che passa agli annali, viene presa per vera e, soprattutto, è invariabilmente scritta dai vincitori. Poi ci sono le storie, o le leggende, senza le quali la storia ufficiale sarebbe un freddo e scarno referto di avvenimenti. Quelle che colorano il mondo, gli danno senso profondo, spiegano i comportamenti umani più di mille trattati scientifici. E il calcio è uno di quei mondi che non può fare a meno di simili leggende, quelle che andremo a conoscere con questa serie di racconti. E si badi bene, queste storie sono vere. Come sono vere tantissime altre leggende e storie tramandate. Parafrasando Pasolini, “sono vere ma non abbiamo le prove”. Semplicemente la tradizione orale, i racconti sentiti a bordo campo, negli spogliatoi, nelle chiacchiere da bar tra addetti ai lavori, nelle redazioni. La storia raccontata dal popolo, che viene trascritta solo se qualcuno ci si mette, come accadde millenni fa a tale Omero. Pur non avendo simili ambizioni, abbiamo ricevuto delle storie da un suo umile e anonimo emulatore contemporaneo. E queste storie ci raccontano, nellʼarco degli ultimi ventʼanni, il calcio dellʼimbroglio, dello scandalo, del sottobosco, non solo nel “calcio che conta” ma anche nella laida provincia, tra personaggi dʼaltri tempi e macchiette di paese. Dove lʼanima potente e quella popolare del calcio e dellʼessere umano si fondono in una trama ridicola e inquietante, deprimente ed esaltante. Il tutto sotto lo sguardo di un “Grande Vecchio” che tutto sa e tutto può. Ogni giovedì su sportpopolare.it. Buona lettura.
Questa è la storia che ha segnato per almeno un ventennio le vicende, anche difficili, di una società del sud. Un club che con un punto, andando a giocare in uno dei più leggendari stadi d’Italia, di fatto avrebbe evitato una bruciante retrocessione. Che invece avvenne. Perché un ragazzo subentrato nel finale di uno scontato zero a zero, decise di fottersene degli accordi e da debuttante segnò una rete che meritava di spianargli ben altra carriera. Ma poiché quel gol ruppe un accordo che in campo non si doveva assolutamente mettere in discussione, quel possibile grande attaccante mai superò, di fatto, le serie dilettantistiche.
Lui chi era? Un ragazzo che nelle giovanili doveva fare i conti col proprio cognome, lo stesso del presidente. Solo un’omonimia, peraltro piacevole... Fatto sta che quel cognome pareva più danneggiarlo, che fargli bene. E infatti, negli anni del vivaio, lo mandano a fare persino gli allievi provinciali, altro che regionali o nazionali. Ma la cosa funzionava, lui imparò a vedere bene la porta, come dimostrò nella partita più importante della sua vita, quella che con la sua disubbidienza marchiò per sempre la sua carriera.
Poi il ragazzo ha fatto in tempo a divertirsi, giocando anche per un club particolarmente prestigioso, nato nel segno di un’impresa che ebbe dell’epico.
Solo lì, il nostro bomber cacciato dai quartieri alti del calcio, riuscì a dare il meglio di sé, per quella maglia che non è poco comunque averla indossata.
Quel giorno, in campo, ci voleva poco a capire che la sua girata dal limite era spontanea e chi era entrato aveva deciso di fottersene delle camarille mafiose dei veterani. La porta avversaria era sotto i gradoni sempre pieni di quella “kop” che odora di leggenda ad ogni canto: chi arriva in quello stadio sa che alla monetina si gioca già molto. Può farsi brutta a difendere sotto quella “kop” nella ripresa, si può perdere anche se si è squadroni, tipo quel top club che vinceva 0-3 all’intervallo. E nel secondo tempo sotto la “kop” ne prese quattro.
Per cui quel giorno, quel coraggioso ragazzetto, su quel preciso destro girato in porta era come se avesse scritto “si fottano gli accordi sulle nostre teste, io ho la mia, e quella “kop” vorrei sempre farla venire giù di gioia con un mio gol”.
E quella società del sud? È da poco tornata nel professionismo, dopo fallimenti, cambi di denominazione e svariati ostacoli assortiti.
Quel giorno, dopo l’1-0, a qualcuno scattarono i nervi e le immagini della gara, da tempo non più facilmente reperibili, in qualche faccia degli attori in campo lo dimostrano. Così, per non tradire i diversi gesti di incazzatura affiorati in campo, poiché mancava veramente poco alla fine della partita, si “coprì” l’accordo non rispettato con un 2-0 finale in contropiede che provasse a fugare ogni dubbio. Un modo insomma, per evitare quanto accadde poche stagioni dopo col “caso Tuta”, il brasiliano che, come egli stesso diversi anni dopo ha confermato, siglò il 2-1 in un Venezia-Bari, fra le ire del clan dei pugliesi, rompendo l’accordo che c’era per il pareggio.
Tuta era un ragazzo che in Italia poteva dire la sua, eccome. Ma a fine stagione, fu rispedito a casa quasi da appestato. E poi, nel resto della carriera, non se l’è passata per niente bene, finendo coinvolto in un pesante fatto di cronaca che l’ha portato anche in carcere.
Al contrario di quel ragazzo disubbidiente che per fatti di cronaca extracalcistica c’è sì finito, ma per un episodio edificante, degno di quella maglia con cui divenne calciatore.
Ma che bel bomber, che potenziale Gilardino ci siamo persi.
Matteo Alfeo