Da che mondo è mondo, esiste una “storia” ufficiale, che passa agli annali, viene presa per vera e, soprattutto, è invariabilmente scritta dai vincitori. Poi ci sono le storie, o le leggende, senza le quali la storia ufficiale sarebbe un freddo e scarno referto di avvenimenti. Quelle che colorano il mondo, gli danno senso profondo, spiegano i comportamenti umani più di mille trattati scientifici. E il calcio è uno di quei mondi che non può fare a meno di simili leggende, quelle che andremo a conoscere con questa serie di racconti. E si badi bene, queste storie sono vere. Come sono vere tantissime altre leggende e storie tramandate. Parafrasando Pasolini, “sono vere ma non abbiamo le prove”. Semplicemente la tradizione orale, i racconti sentiti a bordo campo, negli spogliatoi, nelle chiacchiere da bar tra addetti ai lavori, nelle redazioni. La storia raccontata dal popolo, che viene trascritta solo se qualcuno ci si mette, come accadde millenni fa a tale Omero. Pur non avendo simili ambizioni, abbiamo ricevuto delle storie da un suo umile e anonimo emulatore contemporaneo. E queste storie ci raccontano, nellʼarco degli ultimi ventʼanni, il calcio dellʼimbroglio, dello scandalo, del sottobosco, non solo nel “calcio che conta” ma anche nella laida provincia, tra personaggi dʼaltri tempi e macchiette di paese. Dove lʼanima potente e quella popolare del calcio e dellʼessere umano si fondono in una trama ridicola e inquietante, deprimente ed esaltante. Il tutto sotto lo sguardo di un “Grande Vecchio” che tutto sa e tutto può. Ogni giovedì su sportpopolare.it. Buona lettura.
In principio fu Steve Mokone, soprannominato kalamazoo, che è poi una città del Michighan, Stati Uniti d’America, dove si fabbricavano le chitarre Gibson. Sudafricano di Johannesburg, attaccante, venne a giocare nel vecchissimo continente, di fatto per prendere insulti dal simpaticissimo pubblico bianco dʼEuropa. Erano gli Anni 50, in Sudafrica giocava per i Bucks. Lo volevano in Inghilterra, nel Newcastle, il padre non lo fece partire perché doveva prima studiare, ma poi riuscì ad andarsene, giunse al Coventry e patì sulla sua pelle il razzismo degli inglesi. Eppure qualcosa vale, il Mokone, infatti riesce a fare un provino per il Real Madrid, perché i numeri non gli mancano, ma la società, allʼepoca quasi la stessa cosa del Generalissimo Franco, lo spedisce in terza serie olandese allʼHeracles, dove in due stagioni segna parecchio e dà un contributo fondamentale alla promozione in seconda serie. Un problema alla caviglia ne frena la carriera però lʼascesa continua, passa per Cardiff (Galles) e persino Barcellona che per un surplus di stranieri lo gira allʼOlympique Marsiglia. E lì, altra umiliazione: neanche una partita ufficiale e lo impiegano a fabbricar palloni. Passaggio che lo porterà a tornare in Africa, lʼallora Rhodesia, poi diventata Zimbabwe, gioca per il Salisbury. Finché nel 1962 sbarca in Italia, giusto il Torino poteva scommettere su un giocatore del genere. Però la musica per lui è sempre la stessa. Gli fanno giocare solo qualche amichevole di precampionato, dove peraltro fa faville (segna 5 reti allʼHellas Verona, e una anche alla Dinamo di Mosca). Domanda: nella città dei cartelli “non si affitta ai meridionali”, un “negro” poteva trovare spazio? Infatti non giocò una gara ufficiale e chissà quanto fu strumentale e influì il giudizio sprezzante e tranciante che riuscì a pronunciare su di lui lʼancora decano del calcio torinese, un giovane Gian Paolo Ormezzano. In teoria, molto in teoria, la penna più libera della stampa torinese, rilascia un giudizio totalmente gratuito su di lui, rintracciabile su Wikipedia: “Fu comprato perché a uno dei soci principali del Torino piaceva molto sua moglie e così li fece venire un anno a Torino, ma non lo fecero giocare mai, impossibile, non era allʼaltezza”. Forse intendeva allʼaltezza del razzismo della città, piuttosto vivo ancora a oltre mezzo secolo di distanza. Chiuse la carriera da dilettante in Canada e Australia, divenne in seguito professore di psicologia. Si “aggiudicò” una condanna di 12 anni per maltrattamenti alla moglie, ovviamente una pena simile non lʼavrebbe presa se non fosse stato un attivista contro lʼapartheid.
Anni ʼ80, in Italia si riaprono le frontiere ai calciatori esteri e allʼAscoli dello scamiciato e ruspante patron Rozzi, approda François Jean Zahoui, attaccante classe ʼ62. Lo chiamavano zigulì, come la caramellina di frutta, non si usava ancora lʼespressione “vu cumprà”. Fu il primo africano a giocare in Italia, costò dieci milioni di lire, paga al minimo sindacale, un milione e 200mila lire. In due stagioni 11 presenze e diversi rimpianti perché poi giocherà stabilmente in Francia per nove stagioni fra Nancy e Tolone, prima di rientrare in Costa dʼAvorio e iniziare una carriera da allenatore che lo porterà ad avere la panchina da ct della nazionale. Prima gliela danno ad interim, poi allʼesordio batte 1-0 in amichevole lʼItalia, e diventa a tutti gli effetti la guida del calcio ivoriano.
Anni ʼ90, il caso tutto italiano del congolese Christian Kampany Kanyengele, classe ʼ76. Sbarca in serie D nel Terracina, dove fra il 1996 e il ʼ99 segna 33 reti in 90 gare. È una situazione assurda. A Kanyengele può capitare di andare a giocare partite per il Congo davanti a spalti festanti e gremiti allʼinverosimile per gare di qualificazione ai Mondiali. Poi prende un aereo e torna in Italia per andare a giocare in trasferta per i campi di paese della serie D in centro Italia. Quando è evidente che merita - almeno - una serie maggiore, deve scontrarsi col regolamento di quella categoria, che non permette di giocare agli extracomunitari. Era la terza serie in mano al torvo satrapo Macalli, inchiodato su quella poltrona dal 1997 al 2015, scalzato dal suo “feudo” dopo una lunga battaglia di un gruppo di società “ribelli” e da unʼinchiesta sul suo operare che getta gravi ombre sul suo modo di vivere. Kanyengele sʼincatenerà davanti alla Figc per ottenere diritti e riuscirà a fare una discreta carriera, giocando anche per Savoia, Catania e Sambenedettese.
Storie più recenti ci sarebbero. Ma prima, provate a immaginare cosa potesse essere il calcio africano in Italia prima della legge Turco-Napolitano che a fine anni ʼ90 istituì i lager di stato chiamati prima CPT (centri permanenza temporanea, ma di fatto già prigioni di stato per innocenti), poi trasformati in CIE (centri identificazione ed espulsione, cambia il nome e la prigione diventa più dura, ma non di molto). Stadietto Cenisia, Borgo San Paolo, Torino. Quelle immonde carceri non sono state ancora istituite. E si può giocare unʼamichevole fra una rappresentativa di carabineri e di aquile nigeriane di Torino. Un undici che fu leggenda, anche se nessuno di loro ebbe mai lʼoccasione giusta per diventare calciatore vero in Europa. Sugli spalti una colorata e viva rappresentanza di Africa, piccola ma bella. In uno spazio a parte, quasi una tribunetta, le fidanzate annoiate dei caramba. Erano le aquile nigeriane di Achom Chido, più di un allenatore, più di un tecnico, il loro padre tuttofare che rideva sempre, dato per morto qualche tempo fa dal quotidiano della città di Torino, La Stampa, che il vero popolo di un villaggio che un tempo si chiamava Taurasia, chiama ancora La Busiarda (così come il vero nome della Fiat, per gli operai che lavorava(no) è la Feroce). Le aquile di Achom giocarono una partita meravigliosa: potevano fargliene 8 o 9 ai poveri carambini.
Si limitarono a tre, e concessero alla fine anche il gol della bandiera. Tutto questo prima che i ministri Turco e Napolitano inaugurarono quelle prigioni.
Oggi nel calcio italiano si possono raccontare tante storie delle serie minori dove in qualche modo qualcuno, dopo uno sbarco, riesce ad entrare nelle categorie dilettantistiche: serie D, eccellenza, promozione, prima, seconda e terza categoria. Chi è quello che riesce ad andare meglio? Il Gullit di Grumello, paese della bergamasca: lavora part-time in autogrill e sta regalando a quel paese i momenti più memorabili della loro storia da deb in serie D. Con lui, la Grumellese ha battuto 2-0 il Monza ed è andato a pareggiare 1-1 in casa del Lecco presieduto da Evaristo Beccalossi, e con Luciano De Paola, ex medianaccio di Brescia e Lazio, che lʼaveva appeno rilanciato dopo una partenza pessima col fratello di Javier Zanetti in panchina. Il Gullit (Okeyre) di Grumello è già in doppia cifra con 14 gol.
Però, non va dimenticato David Yeboah, ventenne della Turris, ghanese sbarcato a Lampedusa. Il ragazzo non si farà, anche se ha ancora le spalle strette, e non sarebbe male se giocasse con numeri di maglia dallʼuno allʼundici, che si rintracciano solo dalla terza serie in giù, anche se ormai la Lega Pro va considerata un “fondaco” di talenti inespressi, dunque quasi una serie B, che con la botta di culo giusta possono salire di categoria: è lʼunico modo per arrivare più in alto per loro?
“Purtroppo grossomodo sì – ammetterebbe persino mister Pimpirlino – lei sa bene come le alte serie siano grossomodo blindate e riservate a calciatori “fatti” per essere destinati a vivere in tutto un altro mondo. Certo, le leggi di Stato, prima che quelle Figc, ci legano le mani. Non aiutano per nulla, ma di sicuro io non potrei parlare di leggi. Capisca a me... come dicevano una volta dalle mie parti. Fosse per me, anche se faticherà a crederlo, pur conoscendomi bene, farei tutto il possibile per portarli dove vorrebbero giocare”.
Matteo Alfeo