Dopo la strada e la palestra, un buon posto dove fare a pugni è in libreria. Niente di strano perché fra scaffali e pile di libri non è difficile incontrare scrittori con zigomi rigonfi e naso schiacciato.
Così si può trovare Efrem Medina Reyes, alcolista, erotomane, musicista e pugile fallito, autore di diversi romanzi nei quali la boxe fa da sfondo.
Colombiano, classe 1967, Efrem ha anche vissuto in Italia, dove si è interrogato sulle perverse pulsioni del Belpaese. Convinto anticonformista al limite dell’autolesionismo, il suo libro più conosciuto è C’era una volta l’amore ma ho dovuto ammazzarlo.
Amante della cocaina e del profumo muschiato di donne tutt’altro che casa e chiesa, Medina Reyes disprezza la narrativa sudamericana: odia Marquez e il “realismo magico” di una Colombia rurale e distopica nella quale non si riconosce e si fa portavoce invece di un paese nichilista e metropolitano, disilluso e bulimico dove le “stelle e strisce” hanno lasciato un solco profondo, diffondendo molti sogni e troppe illusioni.
E così nocche e cazzotti si mischiano con il rum, la cumbia e prosperosi fondoschiena, in un universo fatto di bar malfamati, strusciatine ed esplosioni machiste di violenza che colpiscono come un montante ben assestato al mento.
Simile al sibilo di un diretto destro che “spegne la luce” è invece Pugni di Pietro Grossi, uscito per Sellerio una decina di anni fa. Strano caso di un bello scritto sulla boxe, affatto retorico e privo di quella nauseante fiction stupefacente che tanta repulsione crea a chi ha indossato fasce, caschetto e guantoni quando si trova a rileggere qualcosa che sente lontano dalla dura realtà del quadrato. Qui i racconti sono tre ma il principale è dedicato a due pugili immaginari: la Capra e il Ballerino che rappresentano, neanche troppo velatamente, due modi opposti di intendere il pugilato.
Rabbia proletaria quella della Capra che vive la boxe come riscossa e si fa largo a gomitate tenendo la testa bassa, senza disdegnare le spallate – mai stanco di incassare – sempre consapevole che senza sacrificio non c’è guadagno.
Dall’altra parte il Ballerino, uno che usa la noble art in maniera psicanalitica, quasi freudiana: per lui i cazzotti sono un viaggio nel subconscio, per trovare la misura e spingersi oltre il proprio limite. Insomma il pugilato come “prova” ma anche come “strumento”, infine semplice “mezzo” per uscire dal pantano e dalla fogna di un mondo in perenne astinenza da stimoli.
Obbligatorio invece fasciarsi le mani e indossare i guantoni prima di leggere Il professionista di W. C. Heinz, considerato da molti – Hemingway compreso – il miglior romanzo di sempre sulla boxe. Il giornalista sportivo Frank Hughes, vero alter ego di Heinz, ci guida in un’epopea d’inizio secolo in cui è riassunta la storia di un mediocre pugile newyorkese che dopo anni passati a boxare e a incassare, ha la chance di tutta una carriera: combattere per il titolo mondiale dei pesi medi. Fra le righe, è facile notare qualcosa di più che una semplice ispirazione per il Rocky di Silvestre Stallone.
Ma per chi è cresciuto con il pugilato di fine anni Ottanta e inizio Novanta, quando il re era uno, veniva da Brooklin e si chiamava Mike Tyson, da non perdere è True. La mia storia bestseller da migliaia di copie oltreoceano.
Qui Iron Mike ripercorre la sua vita, da quando era un bambino introverso e sovrappeso con tanto di vocina efebica che gli valse il nome di “fatina”, passando per i successi sul ring e i fallimenti di una vita, fra carcere, vittorie, titoli mondiali, eccessi e abusi. Ci si può quindi ritrovare a fare il sacco nella palestra di Cus D’amato a Catskill, oppure invischiati in uno dei festini organizzati da Don King per il suo campione.
Sempre in tema di biografie, toglie il fiato come un cazzotto sulla bocca dello stomaco Mani di pietra. Vita e la leggenda di Roberto Durán, uno dei più amati pugili latinoamericani della storia, edito da Castelvecchi nel 2013, così come lascia annichiliti Monzon. Il professionista della violenza di Dario Torromeo e Riccardo Romani, sull’epopea tragica di un pugile che si è distrutto da solo.
Sempre sospeso fra “gioie e dolori” Non pensavo che la vita fosse così lunga. Gloria e tragedia di Tiberio Mitri, di Amadei, Falcone e Palombini, sul pugile italiano, vero divo nell’Italia del Dopoguerra ma travolto più di altri dall’alloro della gloria.
In attesa dell’edizione italiana (tutt’altro che imminente e mai annunciata) per gli anglofoni, è meglio di una combinazione gancio-montante It May End Up Killing You: Hard Fought Lessons from a Life in the Ring, scritto a quattro mani da Freddie Roach e dal giornalista Peter Owen Nelson.
Con prefazione di Manny “Pacman” Pacquiao – uno dei migliori pugili degli anni Duemila e allievo di Freddy – il libro racconta i retroscena della vita di Roach, considerato da tutti come il migliore maestro di pugilato del mondo, non senza dimenticare la faticosa lotta che conduce da anni contro il Parkinson.
Ecco perché anche in libreria il gong non smette di suonare e non mancano pugili, falliti e non, pronti a combattere almeno un ultimo round sulla carta stampata.
Filippo Petrocelli