Sembra passata una vita, anzi sembra quasi una visione onirica, eppure non più tardi di una quarantina di giorni or sono chi vi scrive, insieme a tanti altri appassionati calciofili, si trovava nelle aule dellʼUniversità di Bologna, in unʼiniziativa organizzata dal Laboratorio Crash e del Collettivo Universitario Autonomo per discutere del pallone e dei mille e più modi per raccontarlo in modo da creare un pubblico di appassionati, dipendente da quelle emozioni che, volenti o nolenti, sa dare solo la tua squadra del cuore, quellʼunico legame che sai a prescindere che non tradirai mai. Sembrava quasi una sorta di patto generazionale: decani della letteratura sportiva del calibro di Gianni Mura e Darwin Pastorin si confrontavano con nuove generazioni di blogger e scrittori dal basso che provano quotidianamente ad emergere dalla massa indistinta di informazioni e riferimenti che è il web per proporre contenuti originali e di qualità, con la voglia di salvare il volto passionale e popolare del calcio, che non necessariamente deve coincidere con la nostalgia per il calcio che fu - perché anche adesso ci sono degli ottimi divulgatori - ma con la voglia di intenderlo in una maniera differente da come viene fatto oggi. I feedback di tutti i partecipanti sono stati più che positivi e speranzosi di poter dare nuova linfa a un settore, quello del giornalismo sportivo, sempre più in crisi per una serie di fattori, qualcuno endemico come può essere la crisi del giornalismo e dellʼinformazione più in generale, soprattutto in un contesto “sui generis” come quello italiano, e secondariamente per la trasformazione che sta vivendo il calcio in quanto tale.
Sfortunatamente, come sempre accade, tutti i buoni propositi sono obbligati a scontrarsi, se non proprio a schiantarsi, contro il muro della realtà che in questo caso definire agghiacciante è dire poco. La cartina di tornasole di quanto annaspi unʼinformazione sportiva di qualità è stata data dallʼincontro di mercoledì sera tra il Bayern Monaco e la Juventus, una partita che al di là delle appartenenze di fede, è stata avvincente e spettacolare per quanto possa esserlo una partita con una posta in palio così alta, e che meritava la massima attenzione in un paese il cui movimento calcistico sta provando a risalire la china dopo anni di vacche anoressiche. Si presupponeva unʼattesa spasmodica e unʼattenzione ossessiva a ogni particolare per quella che si preannunciava, come effettivamente lo è stata, una battaglia tattica fino allʼultimo sangue tra due scuole di pensiero distanti, ma entrambe meritevoli di rispetto e per di più interpretata da alcuni tra i giocatori più forti del pianeta.
Invece la vigilia di quella che si è rivelata essere la partita più avvincenti di questʼedizione, è passata soffermandosi su un tweet ufficiale del Bayern Monaco, in cui facendo il verso a uno dei motti più cari alla tifoseria bianconera, “Fino alla fine”, veniva raffigurato un paio di binari alla cui fine si erigeva lo stadio del Bayern, lʼAllianz Arena, e il portiere bavarese Neuer con sullo sfondo una scritta a caratteri cubitali “Qui è la fine”. Apriti cielo! Senza neanche concedere il beneficio del dubbio, i binari in questione venivano immediatamente associati a quelli posti al di fuori di Auschwitz, come se la Germania non avesse ferrovie, come se i tedeschi fossero automaticamente tutti nazisti senza possibilità di redenzione. Ormai il bubbone era esploso e per ore, quelle che per un tifoso o per un qualsiasi appassionato di calcio sono ore sacre e interminabili che ti separano dal match che può essere il crocevia della stagione, piuttosto che dissertare di calcio, del tiki-taka in salsa teutonica di Guardiola, delle assenze forzate della Juve e delle soluzioni a tratti sorprendenti adottate da Allegri, non cʼè stato verso di spostare la discussione su questioni di calcio giocato, si parlava solo di tweet, di hastag, di #viaibinarinazisti e di cose simili, come se si trattasse di un match amichevole infrasettimanale tra due formazioni amatoriali e non del meglio che possono offrire due scuole calcistiche dallʼimmensa tradizione come quella italiana e quella tedesca. Eppure, sarebbe bastata una semplicissima ricerca anche sulla tanto vituperata wikipedia per rendersi conto della cantonata presa, per scoprire che effettivamente fuori dallʼAllianz Arena vi sono dei binari, oppure che il Bayern Monaco storicamente, non è stato proprio il club del regime nazista, anzi il presidente di allora del club, Kurt Landauer fu espulso e deportato a Dachau perché ebreo, e la squadra veniva chiamata “judenklubs” (club ebreo), così come, senza doversi affannare lʼanno scorso avrebbero evitato di affibbiare alla “Schikeria” il gruppo ultras più famoso al seguito dei bavaresi, la definizione di “neonazisti”, quando in realtà sono tra le tifoserie più attive contro il razzismo in Germania. Evidentemente ciò non era abbastanza per arginare una banale quanto faziosa associazione di idee, che se da un lato aveva il “merito” di costringere al mea culpa il club tedesco, dallʼaltro dimostrava la mediocrità e il provincialismo del nostro giornalismo sportivo (e non solo) a tal punto da fare dissociare da questa crociata buona parte dei tifosi juventini e non solo.
Un giornalismo capace di distinguersi solo per conformismo e per unʼadesione acritica a tutto quello che possa essere “politicamente corretto”, con un retrogusto di plastica che ormai è il tratto distintivo dellʼinformazione sportiva mainstream, molto più intenta ai fatti di gossip piuttosto che ai fatti sportivi in sé. Non è un caso che lʼedizione del giorno successivo del Corriere dello Sport sbandierasse esultante il ritiro del tweet da parte del Bayern, mentre sulla probabile formazione sbagliata o sui pronostici tattici della vigilia altrettanto inesatti neanche una parola. Il dubbio che sorge spontaneo è che forse questʼatteggiamento sia dovuto alla scarsa dimestichezza con lʼargomento in questione, quel calcio che dovrebbe costituire la materia del loro lavoro e che sempre più viene misconosciuto dagli addetti ai lavori. In fin dei conti, se lʼobiettivo neanche tanto nascosto dei nuovi poteri forti nel calcio è quello di farlo diventare uno show-business a tutti gli effetti, cʼè pure bisogno di qualcuno che funga da strillone per propagandare questa nuova visione e preparare il pubblico al suo arrivo, normalizzandone le sensazioni in modo da trasformare i tifosi in un pubblico adeguato per il teatro, a costo anche di sacrificare lʼinformazione vera e propria in nome della ricerca dello scoop, delle polemiche, dei presunti torti arbitrali e di tutto quello che riesca a non far pensare al calcio giocato. Intanto, vengono comminate diffide e denunce per dei cori o per fatti di piazza del tutto estranei al calcio; viene criminalizzato chi osa contestare le proprie squadre dopo sconfitte rovinose, mentre nelle categorie inferiori, come al solito, è cominciata la solita avvilente compravendita di partite di fine stagione, molte società sono virtualmente già fallite eppure continuano come nulla fosse rischiando di falsare i campionati, ma nella più completa osservanza della tradizione italiana in cui si chiude la stalla solo quando i buoi sono già usciti, si fa finta di nulla, probabilmente perché non “tirano” come i nuovi amori tra calciatori e soubrette, oppure perché in articoli di gossip gli errori grammaticali (sì ormai ci sono anche quelli!...) danno meno nellʼocchio.
Sembra quasi di vedere quello che succede ad esempio qui a Roma, dove certe testate editoriali sono di proprietà dei palazzinari più noti della città e, guarda caso, le stesse sono i principali detrattori di chi le case le occupa per necessità, ribaltando i ruoli tra sfruttati e profittatori, un poʼ come accade nello sport dove chi controlla le società è in grado di influenzare gli umori dei giornalisti e indirizzare le opinioni a proprio piacimento con buona pace della verità. Quindi nellʼinformazione sportiva vale lo stesso principio del resto dellʼinformazione: non ha senso confidare nei canali mainstream in cui a parte qualche valida, ma isolata, eccezione cʼè un costante slittamento del discorso verso “unʼinformazione deformata”, tanto vale concentrarsi nel migliorare le proprie reti comunicative e formare nuovi circuiti, proprio come proposto a Bologna, mettendo al centro una narrazione reale dei fatti e non lʼennesimo scoop scandalistico.
Giuseppe Ranieri