* Il mio omaggio al Leicester. L’undicesimo capitolo di “E non vorrei lo sai lasciarti mai perché”
Luoghi assortiti, 1997-1998
Non so come, non so perché. Successe. E tanto basta. Divampò d’un tratto. E fu uno sdoganamento epocale. Come quello del Msi. Il calcio inglese. Dapprima oggetto di culto per soli, autentici, massicci fans. Dalla seconda metà dei Novanta, un carrozzone grigio e silenzioso, che invadeva le strade dell’etere svincolate dal monopolio generalista. Ed imponeva dogmi ad un pubblico di adolescenti e giovanotti ammalati d’esteriore esterofilia. Non ricordo di preciso quando, ma il malessere britannico colpì anche noialtri, ai tempi della saletta di via Brindisi. Tra una partita a biliardino e un sorso di sottomarca in lattina (“Savì, ma sai che è buona proprio sta birra?”), qualcuno insinuò una parola albionica. United, probabilmente. Fatto sta che l’ostracismo nei confronti di quel calcio – che per la mia generazione era il calcio dell’Heysel, quello estromesso dalle competizioni europee, quello alle prese con gli hooligans – finì quella sera. Alla Blackred. E tutti corsero a schierarsi. Ad appassionarsi artificialmente a ciò che non gli era mai passato per la testa. Una sorta di trend modaiolo. Di quelle cose che arrivano, impazzano e passano. Tipo il Tamagotchi. O il Patto Segni. Fatto sta che l’Inghilterra dell’epoca piazzava due sole squadre in Champions. Per dare un’idea della modestia. La Premier se la giocavano Manchester Utd, Arsenal e, in misura minore, il Liverpool. Vinceva quasi sempre il Manchester Utd. Si batteva con onore il Newcastle. Tra le prime finiva sempre il Leeds. I miei amici tifavano Manchester United, Arsenal e, in misura minore, il Livepool. Il carrozzone sarà anche stato grigio e silenzioso, ma da queste parti quando vedono un vincitore a bordo, ci si attrezza a stare stretti. Era questo, col senno di poi, ciò che non riuscivo a mandar giù.
Premesso: a me dell’Inghilterra non importava davvero niente. Però non mi andava di finire ai margini di una discussione. Già erano tempi che tornavi da Pescara, da Avellino col treno speciale e gli sfaccendati del viale ti chiedevano: “Che ha fatto il Foggia?”. A questo si aggiunga pure un’incipiente politicizzazione e la malagrazia con cui provavo a reggere le stecche del biliardino. In sostanza, non avevo scelta. L’isolamento avanzava a grandi falcate. Mi cingeva d’assedio. Dovevo fingere. Così decisi di scegliere. Ne avrei approfittato per portare al cuore dello Stato la mia battaglia contro gli opportunisti. Contro i gobbi nell’animo. Quelli che tifano per chi vince. Che sanno i nomi dei giocatori di una squadra londinese ed ignorano che, l’altro giorno, a Salerno ci siamo presi una sassaiola che iddio solo lo sa. Per portarla breve, scelsi. Il Leicester City FC. All’epoca codesta squadra, fondata nel 1884 da un gruppo di studenti della Wyggeston, dai colori sociali bianco e blu, veleggiava tra il nono e il decimo posto in classifica. Avevo visto due o tre frame del suo campo sportivo. Bello. Ma da quel punto di vista, figuriamoci. Da quel punto di vista il fascino dell’Inghilterra è innegabile. I tifosi non mi sembravano particolarmente appassionati. Fredda gente del Nord. O del Sud-Est. O del boh, non lo sapevo dove fosse Leicester. Avrei scelto il Newcastle, in realtà, se non fosse per quell’ostinazione a giocarsela fino all’ultimo, nelle zone alte della classifica. Lo comunicai. “È ufficiale: in Inghilterra tifo per il Leicester”. I giornalisti mi fecero un sacco di domande, gli opinionisti s’interrogarono a lungo, qualche vignettista ironizzò. Gianni scosse la testa, ormai abituato a quelle sparate; Maurizio mi disse qualcosa tipo: “Ma tu proprio non ce la fai a essere normale?”. Ma il dado era tratto. E fu l’unica novità in tutta quella storia. Passavano i giorni, i mesi. E il mio disinteresse iniziale non soffriva d’alti e bassi. Rimaneva lì, pietra basaltica. Poi, ogni tanto, davanti ad un panino di Papone (o della Roscia, non s’è mai appurato chi fosse l’uno e chi l’altra), s’accendeva un focolaio di dibattito. E uno diceva che il gol dello United era in fuorigioco, l’altro rispondeva: “Cazzo dici…”. Una sera, però, questo tenero menage di svogliatezza, subì un’impennata clamorosa. Uscì con noialtri un tale, un amico di amici. Ebbene, costui era davvero un esperto. Un clamoroso filologo del calcio britannico. E successe l’inevitabile. Su dieci, dodici persone attorno ad un tavolo a bere birra e mangiare scagliozzi, costui esplose: “Dai! Bellissimo! Non avevo mai incontrato nessuno che tifasse Leicester!”. Io lo guardavo storpiando un sorriso di circostanza, e pensavo: “…e grazie al cazzo!”. Ma quello insisteva, circondato dall’orgoglio dei miei amici, fieri di mostrare a costui cotanto esemplare in via d’estinzione. “Ma quando ti è venuta sta passione?”. Ma, sai, da piccolo. Sono cose che non si spiegano. Mio padre lavorava al casello di Leicester Ovest, però non faceva il casellante, stava nei camion della manutenzione. La serata scivolò via, non senza ripetuti richiami a questa faccenda. Fosse stata una donna, saremmo finiti a letto. O in macchina, quanto meno. Ma era un ragazzo alto e adulto, così ci limitammo ad una stretta di mano. E tanti saluti. Pensavo io. Invece. Con sommo stupore scoprii che il ragazzo adulto e alto lavorava all’Ipercoop. Fu un sabato pomeriggio che precedeva una delle canoniche feste di compleanno di qualche sconosciuto. Quelle dove noialtri arrivavamo in orario e, come dei ferrovieri, consumavamo il beveraggio nella 205 di Angelo. Prima ancora di fare l’ingresso in società. Quel pomeriggio avevamo optato per il Campari e il gin. Entrammo senza carrello, con una certa fretta. Gente indaffarata, milanese, mica filosofi della Rive Gauche! Uno sguardo di sfuggita. Un’impressione fugace. Oddio, no! L’esperto! Dai che non mi vede, dai che riesco a sfilargli di fianco. Invece. È un’esclamazione di gioia, stupore, felicità, quella che m’accoglie. Tutt’assieme. “Ehilà!”. Segue risata beffarda e compiaciuta. La mano mi indica e il taglio degli occhi dice: mannaggia a te, non cambierai mai. Io faccio un “eeeh!” di risposta abbastanza minuscolo, depotenziato d’entusiasmo. Le mani si incontrano con quel “ciock!” che è tipico di noi giovani ganzi. Fatece largo che passamo noi. Lui annuisce. So che sta per parlare. Io annuisco. Gli amici attorno a me annuiscono. Tutto l’ipermercato di merda annuisce, in trepidante attesa. Una tensione religiosa paragonabile solo alla processione dell’Addolorata. Che si scioglie in un lampo di partecipazione. Quello dice: “Il Leicester!”. Eeeeeeeeeeeeh! “Non ci posso pensare, guarda! È da quella sera che mi ci tormento. Ma com’è?”. È una fede, amico mio. Una fede. Come il Natale, quando arriva, arriva. E tu non puoi farci proprio niente. “Mannaggia, mannaggia. Sei troppo forte!”. Eh, devi vedere tu! Capii che a quel punto era diventato urgente fare una mappatura della situazione. Ormai sapevo che avrei potuto incontrarlo in almeno due posti. Certo, più semplice sarebbe stato mettersi a seguire sto dannato Leicester. O almeno scorrere la rosa, individuarne il capocannoniere e tramutarlo in idolo da opporre a Shearer, a Beckham e a Cantona. Sarebbe bastato, col senno di poi, anche dare un veloce sguardo ai risultati. Ma erano tempi frenetici. Talmente rapidi che dimenticai persino di boicottare l’Ipercoop. E ci tornai, qualche sabato dopo, con la stessa compagnia di gobbi-alcolizzati-imbucati alle feste. Ma stavolta era tutto diverso. Una nuova consapevolezza s’era impadronita del mio cosciente. Era primavera. Entrai senza carrello. Whiskey. Puntai dritto alla zona di smistamento, il punto informazioni, il punto reclami. Dove dei solerti individui sigillavano borse e borselli in borse e borselli più grandi, per impedire l’arte piccolo-borghese del taccheggio. Uno di questi già mi guardava. Penso avesse un radar, un dispositivo di rilevamento del calore anglosassone. Mi indicava da lontano con un gesto eloquente delle dita della mano destra. Indice e medio sollevati, in oscillazione perpetua, a movimentare il simbolo della vittoria di Churchill. Quando giunsi a ridosso, esordì: “Due ne avete presi! Ma come si fa?”. Due ne avevo presi. Sicché. Fu a quel punto che feci outing. Gli confessai tutto. Senti, amico, a me del Leicester, della Premier, della Championship, dell’Inghilterra tutta e delle Falkland, non me ne frega davvero niente! Lo vidi vacillare, quasi sbiancare. Guardarsi attorno. Cercare nei miei amici qualche sguardo di complicità che svelasse lo scherzo di cattivo gusto. Invece, gli altri due scudieri guardavano a terra. Imbarazzati, forse, più che per quel momento di improvvise e feroci rivelazioni, per una verità che veniva svelata. E che riguardava loro più di quanto volessero ammettere. Visto che sul pavimento gelido dell’ipermercato, ne sono certo, in quel preciso istante hanno visto passare la loro stessa sciocca e maldestra finta-passione.
È un gioco, amico, vorrei specificare oggi. Indorando la pillola. Come quando, da ubriachi attorno ad una tavola in disfacimento, ti sbizzarrisci in ipotesi. E rispondi. Claudia Schiffer o Cindy Crawford? La Crawford, senza alcun tentennamento. E in Germania, in Germania per chi tiferesti? Penso il Borussia Monchengladbach. In Spagna? Il Bilbao, il Bilbao. Quando sai benissimo che non è così che funziona. Funziona che ti deportano. La squadra per cui tifi un’intera vita non è mai una libera scelta. È un dettaglio del karma. Così come pure i nemici, i rivali, gli avversari. Sono lì, preconfezionati, come un kit della Lego. I baresi, i barlettani, i tarantini. Puoi anche decidere di montarli diversamente, i pezzi che hai. Ma, esperienza personale, non otterrai mai nient’altro che sgorbi. C’ho provato. Sia a far diventare un castello medievale la centrale di polizia, sia a farmi battere il cuore per un’altra squadra. Perché capita. A volte i grandi amori tradiscono. O sembra che lo stiano facendo. E tu non reggi, non puoi reggere. Le arterie allora si gonfiano, il sangue si gela. E decidi che basta. Che non vuoi saperne più niente. E fuggi tra le braccia di amanti flebili, a ricercare la scintilla primordiale. La Fiorentina, il Livorno, l’Atalanta. Il Genoa, finalmente dissi. Da oggi tifo Genoa. Tifo. Puah. Un amico mi fece, un giorno: “Ma non tifavi la viola?”. E a me, lo ricordo bene, venne da piangere. Lo avrei preso a pugni, quell’infame rivelatore della mia anima! Anni di prove, di onanismo forzato, di clandestinità. Fino al giorno in cui riemersi. E la vidi. Rossa e nera, splendida, battersela epicamente contro un Foligno qualsiasi. E sussurrarle nell’orecchio, come il miglior Umberto Tozzi: “Non ho smesso di amarti mai”. E questo no, amico. Questo non è un gioco. Non lo è mai stato.
Se fossi nato a Roma? Roma, Roma.
E a Torino? Beh, c’è da chiederlo? C’è una sola squadra a Torino.
E a Birmingham? Zulu! Tutta la vita proprio.
A Liverpool? Sai che non lo so. L’Everton mi affascina.
A Londra? Tottenham.
Ma in definitiva, dimmi un po’, tu dov’è che sei nato?
A Foggia.
Francesco Berlingieri