Quella di “calcio popolare” non può che essere una definizione vaga e fumosa, almeno allo stato di cose presenti. Del resto si è in una fase nascente, i progetti più vecchi hanno pochi anni, quelli più nuovi stanno nascendo in queste settimane e sperano di affacciarsi al prossimo campionato. Ci sono grandi distanze geografiche e modi diversi di intendere l'autogestione e la lotta politica, e in che misura queste debbano interagire con il percorso della squadra. Noi stessi come sito che si pone l'obiettivo di seguire questo mondo e narrarne il più possibile da vicino le gesta abbiamo un approccio arbitrario, ma ciò è inevitabile, perché sarebbe non solo impossibile ma anche indesiderabile stilare una sorta di decalogo del calcio popolare, stabilendo criteri rigidi per i quali sei “dentro o fuori”. Per fare un esempio lampante, annoveriamo tra le squadre “da seguire” l'Afro Napoli United, che in senso stretto non rientrerebbe in questo mondo: è finanziato e sponsorizzato da una cooperativa che lavora nel mondo dell'accoglienza, un mondo su cui tra l'altro chi scrive ha enormi perplessità. Ma stiamo parlando di calcio, e un progetto molto esposto sul tema dell'antirazzismo, tra l'altro con una tifoseria numerosa e politicamente schierata, attira la nostra simpatia, punto. A volte nella vita è meglio lasciare un attimo da parte la nostra rigida e un po' cupa morale di militanti e farsi guidare anche dall'istintiva simpatia, e il calcio è un ambito in cui lo si può fare senza rischiare di far troppi danni.
Tuttavia, col passare del tempo, ci si inizia a conoscere, si fa qualche assemblea, ci si invita a vicenda a iniziative, si leggono i comunicati, si osserva l'agire quotidiano, e qualche linea di condotta peculiare si può iniziare a individuarla.
Intanto, a proposito di antifascismo e antirazzismo, sta emergendo nettamente come questi siano paletti irrinunciabili. O meglio, il non-fascismo e il non-razzismo. Perché sarebbe sbagliato rinchiudersi in un identitarismo troppo forte di antifa militanti (anche se in alcuni progetti questa identità è molto forte ed esibita), andando a creare di fatto una squadra di amici che si chiude a riccio contro il mondo che la circonda. E poi, applicare una selezione troppo rigida porta problemi oggettivi: i giocatori, l'allenatore, devono tutti essere militanti antifascisti? E quanto militanti? Basta venire ai cortei o bisogna aver picchiato personalmente un tot di fascisti? È chiaro che non se ne esce. Più semplice e realistico al momento questo tipo di ragionamento: nei progetti di calcio popolare non ci può essere spazio, né in campo né sugli spalti, per fascisti conclamati e per tentativi di strumentalizzazione politica destrorsa. Per il resto, specie per quei progetti che puntano a un reale lavoro nel quartiere, o nella città di provincia, aggregare persone normalmente fuori dai nostri giri è uno dei principali obiettivi, e quindi sarebbe miope mettersi a fare le pulci alla comitiva di ragazzini in cui ce ne sono un paio “ambigui”, o al signore che si sa che vota a destra. Il progetto vince se è trainante e sa produrre un discorso egemone, non se è escludente e scorbutico con chiunque non abbia il pedigree di compagno al 100%. Il passaggio da “non-razzismo” ad “antirazzismo” sarà poi merito del buon vivere quotidiano del progetto. Ancor più complesso sarebbe il discorso sull'antisessismo, che non approfondirò qui perché merita un capitolo a parte, è un tema su cui si è molto indietro non solo sui campi di calcio, ma su cui va detto che c'è chi sta lavorando in modo lodevole.
Veniamo alle questioni più strettamente calcistiche. Ci si chiede quale sia la differenza sostanziale tra una squadra di amici, che comunque di fatto si autofinanzia e si autogestisce, e una compagine di “calcio popolare”. Qui la risposta mi pare semplice. La rivendicazione. Che non è cosa da poco. Il porsi, se vogliamo anche in modo vago e confuso, come un soggetto antagonista alla realtà attuale, che vuole irrompere sulla scena e proporre un modo diverso di stare in campo e sugli spalti. La comitiva di amici si autogestisce per necessità, la squadra di calcio popolare ne fa una scelta, avvia un percorso, fa un lavoro pubblico, un vero e proprio lavoro politico nel territorio (almeno in alcuni casi più virtuosi) per farsi conoscere e propagandare la propria idea di calcio e di vita. Ad esempio, quello del calcio minore è un mondo torbido, che a livello di scorrettezze e bassezze fa molto più schifo della serie A. Dove si vendono partite per pochi spiccioli, si fanno truffe e illeciti di ogni tipo, si trattano i giocatori come merce di scarsissimo valore. Già affermarsi in quei campionati come “quelli che non ci stanno a queste logiche” è una cosa estremamente politica, e lo è ancor di più se riesce ad aggregare e “guidare” quella miriade di squadre di amici che “fanno calcio popolare ma non lo sanno”. Questa cosa non è ancora successa ma è una possibilità concreta, e in questo aiutano anche i successi sul campo: se oltre a essere un modello eticamente più giusto riesci a mostrare che con l'autogestione vinci i campionati, aggiungi un valore fondamentale, perché alla fine chi pratica uno sport vuole vincere, le chiacchiere stanno a zero.
Qui veniamo anche al punto successivo: campionati FIGC o Lega indipendente? Su questo punto il confronto collettivo avvenuto a Roma a gennaio sembra aver raggiunto un punto piuttosto condiviso, benché ci sia chi propone (in un futuro lontano, non domani) di staccarsi dai campionati ufficiali. Competere nei campionati federali è la scelta di fatto condivisa da quasi tutti: una Lega alternativa sarebbe una sorta di ghetto che non attirerebbe alcun interesse (io stesso ammetto tranquillamente che non seguirei un simile campionato, dove “tifo per tutti”), inoltre avrebbe difficoltà logistiche insormontabili, come ad esempio l'estensione su scala nazionale che renderebbe le trasferte troppo costose. Quindi la strada da percorrere è quella dei luridi e marci campionati FIGC, che però sono anche un terreno di battaglia affascinante, dove sbattere in faccia al calcio dilettantistico nostrano un po' di parole d'ordine nuove. E poi il calcio è fatto anche di sogni infantili, e ciascuno di noi sogna la propria squadra in Serie A, in Champions League. Partendo dalla Terza Categoria non ci arriverai mai, ma “ci potresti arrivare”. E tanto basta. Ovviamente, per chi vuole, resta la scelta dei campionati amatoriali UISP o AICS.
Vediamo infine il nodo più difficile e affascinante, quello dell'autogestione, che non si scioglierà mai ma semplicemente si aggiornerà continuamente, perché in un percorso così strutturato le nuove questioni si pongono di continuo, e allora si dovrà essere sempre un po' zapatisti, si dovrà “camminare domandando”. Questo forse è, o almeno dovrebbe diventare pian piano, il tratto davvero distintivo del “calcio popolare”: si decide tutti assieme, nessuno può prevaricare solo perché è più presente o, peggio ancora, perché ci mette i soldi. Perché sarebbe illusorio pensare che in un progetto tutti mettano lo stesso impegno o lo stesso contributo economico. È normale e giusto che, rispetto all'impegno messo nel progetto, si creino delle gerarchie naturali, ma queste devono essere fluide e trasparenti. Se io vengo sempre sulle gradinate ma all'assemblea vengo una volta ogni dieci, non potrò pretendere di fare la voce grossa e imporre tutto ciò che mi passa per la testa. Ma dovrò avere la possibilità di iniziare in qualsiasi momento a dare un impegno maggiore, e quindi anche ad avere “il diritto” di incidere maggiormente nelle decisioni. Per quanto riguarda i soldi la questione è più netta: non devono contare nulla. Personalmente mi pare una buona strada quella intrapresa da alcune squadre di farsi una piccola rete di sponsor “affidabili” che mettono ognuno pochi soldi: il pub di ritrovo dei tifosi, il negozio di un amico fidato, le attività del quartiere che hanno voglia di sostenere il progetto. Ma deve essere chiaro che sono contributi a fondo perduto. Che non danno nessuna prelazione nelle decisioni riguardanti il progetto. Altrimenti, davvero, è tutto finito e puoi tornare a casa.
È chiaro anche che questi aspetti sono delicati, si gioca tutto su fili molto sottili, esiste ed esisterà sempre la chiacchiera di corridoio, il gruppo whatsapp dove ci sono solo alcuni, il “prendiamoci una birra che dobbiamo parlare”. Sono le dinamiche di relazioni tra gruppi di esseri umani. L'impegno dovrà essere nel limare questi aspetti e lavorare davvero sulla collettività. Perché le sfide che si porranno crescendo saranno ancora tante: i tantissimi soldi che serviranno in categorie superiori, e quindi il modo di procurarseli; il calciomercato, perché se un tuo giocatore forte viene chiamato da una squadra di Lega Pro non gli puoi negare il sogno di una vita, ma quindi “come comportarsi?”; le norme repressive sui tifosi, sempre più aspre man mano che si sale di categoria. E questo solo per fare degli esempi. Per questo è necessario lavorare il più possibile fin da subito sul rafforzamento delle dinamiche decisionali collettive. Perché sono l'ossatura sulla quale potrai confidare nel prendere decisioni così difficili, per non crollare di fronte agli errori ma farne invece tesoro, e per valorizzare davvero i successi.
Tutto ciò è estremamente difficile, faticoso e colmo di contraddizioni. Ma se così non fosse, non sarebbe interessante. Un'ultima battuta la meritano i settori giovanili e le scuole calcio, vero fiore all'occhiello di alcuni progetti del calcio popolare, che si spera si estenda a tutti: se quella fatta dagli adulti dentro e contro i campionati federali può sembrare una battaglia contro i mulini a vento, portare certi valori e certe modalità organizzative già nel mondo dell'infanzia e in quello dei genitori può essere davvero qualche cosa di rivoluzionario. Massima attenzione e serietà dovranno essere dedicate a questi aspetti, perché con un po' di lungimiranza e pazienza potranno davvero costituire un mix esplosivo contro il calcio dei soldi, del razzismo, della prevaricazione.
Matthias Moretti