Il libro di Stefano Benedetti, Sognando Messi. La verità sulle scuole calcio pubblicato da Dissensi ha un grande merito: sollevare dubbi e perplessità su un modello ormai saldamente radicato, quello delle scuole calcio per bambini.
Il risultato è a tratti sconcertante e non mancano gli spunti per provare a ragionare e decostruire un modello di sport “malato” che viene inculcato fin dalla tenera età negli sportivi del domani.
E questo libro rischia di avere l’effetto di “scoperchiare un vaso di pandora”, capace di sconvolgere i genitori benpensanti del XXI secolo, ossessionati in genere dalla loro prole e dannatamente “figliocentrici”.
Il centro del discorso ruota attorno a quanto il modello dello scuole calcio per bambini sia influenzato in modo nefasto da tre grandi mali: l’assoluta inadeguatezza del personale tecnico, l’improvvisazione nei metodi di allenamento e il principio economico come unico principio guida. Insomma la bussola di queste strutture è orientata al business e il profitto è l’unico parametro di riferimento.
Non mancano anche i tecnicismi e spesso si parla della Figc (Federazione italiana gioco calcio) e degli istruttori o di figure diciamo professionali, che dovrebbero garantire la crescita sana dei giovani sportivi che frequentano le scuole calcio. Eppure proprio in termini pedagogici ci dice l’autore, queste sono persone totalmente impreparate ad affrontare i problemi quotidiani un gruppo di pre-adolescenti.
Benedetti le scuole calcio le ha frequentate, seguendo il figlio in mille partite e diventando una figura tipica del calcio giovanile odierno, ovvero il genitore accompagnatore, una figura sospesa appunto fra società e “utenza” di cui c’è grande abbondanza. E la sua indagine sul campo pesca ampiamente nel suo vissuto, nei suoi ricordi e nelle sue esperienze personali.
Ma non è tutto oro quel che luccica e anche se questo libro ha più meriti che demeriti, a tratti perde di incisività e scade nella retorica del “si stava meglio quando si stava peggio”.
Insomma fra le righe spadroneggia il rimpianto onnipresente per un calcio vecchie maniere – che in verità non esiste da almeno trent’anni – e che viene celebrato come un feticcio, di cui spesso si ricordano solo gli spalti assolati ed economici e i panini con la frittata.
Non mancano espressioni del tipo: “La verità è che nostra vita è cambiata: le mamme degli anni ’60 e ’70 non avevano l’impellente necessità di lavorare perché non eravamo ancora nel bel mezzo di una crisi economica di così vaste proporzioni come ora; la disoccupazione era un fenomeno più marginale rispetto ad oggi e lo stipendio dell’uomo era generalmente più che sufficiente a soddisfare le esigenze di una famiglia media”. Oppure l’immancabile nostalgia per il bianco e nero e le partire solo alla domenica: “Addirittura negli anni sessanta, con la tv in bianco e nero, oltre alla Domenica Sportiva che andava in onda la sera, non esistevano altre trasmissioni sul tema calcio. Successivamente e precisamente nel 1970, venne introdotto 90° minuto che andava in onda al termine delle partite fornendo un resoconto visivo subito dopo il fischio finale”. E questa mélancolie per i “polverosi campetti di periferia” personalmente è insopportabile, quasi come il detto: “Non esistono più le mezze stagioni”.
In fondo il mito del “si stava meglio quando si stava peggio”, si nutre proprio di questa sorta di paradosso: l’idealizzazione del passato a scapito del presente e la sua rilettura “postuma” tutt’altro che oggettiva, al contrario molto emotiva. Spesso accompagnata appunto da una massiccia dose di malinconia frutto dei fallimenti di una vita, che rievoca un’età dell’oro che nei fatti non è mai esistita. E non a caso in genere questa sensazione emerge con l’avanzare della calvizie o l’arrembare spavaldo del canuto.
Troppo spesso ci si illude che il calcio goda di un’autonomia rispetto alla società, anche se in realtà tutto è specchio della società, e del cosiddetto “spirito dei tempi”. Ed ecco che quindi il calcio è business, perché il capitalismo ha necessità di monetizzare anche gli svaghi e gli hobby. Non è quindi lo sport ad essere malato ma le strutture economiche a influenzare ogni anfratto delle nostre vite. Anche nel tempo libero. Il problema è il capitalismo quindi, non il calcio.
Il calcio non vive di vita propria, ma piuttosto riflette con ossessione quello che nella società non funziona.
E fa anche riflettere che chi sbandiera da più tempo l’ostilità verso il calcio moderno – gli ultrà – nella vulgata comune siano individuati come uno dei mali del calcio contemporaneo: paradossi di un mondo alla rovescia abituato a falsare le verità.
Chi scrive non ha simpatia per il post-moderno, ma neanche il rimpianto per la golden age che fu. Perché a ben ricordare l’età dell’oro sono semplici proiezioni idealizzate che si scostano di molto dalla realtà effettiva.
Troppo spesso si dimentica che anche nei gloriosi anni Sessanta, molte cose non funzionavano, che già secoli fa si truccavano partite, si assumevano sostante proibite e si giocava solo per vincere. Insomma questa sorta di mitologia decoubertiniana di uno sport autentico e sincero fino agli anni Settanta, fa acqua da tutte le parti.
Uno dei limiti di questo libro è quindi una certa retorica, ma rimane di fatto la sostanza e il coraggio di lanciare una pietra in uno stagno, rimanendo a osservare le onde scaturite.
Di contro l’intuizione più interessante del libro è quello di individuare una sorta di vera e propria rivoluzione culturale dell’immaginario: in effetti il calcio oggi è assurto a supremo “gratta e vinci” della vita moderna, autentico lasciapassare per un futuro di felicità, “svolta” automatica per tutta la famiglia, senza troppa fatica. Ecco così individuato il principale delle odierne scuole calcio, l’insopportabile pressione cui bambini i cui anni si contano a malapena su una mano, trattati troppo come giovani adulti, come garanzie e cambiali per un futuro quanto mai opulento.
Ma forse l’errore più grande di Benedetti è quello di non citare l’esperienza del calcio popolare, cresciuta in osmosi col mondo dei centri sociali e diventata una realtà sportiva più che strutturata, con una forte crescita in termini numerici. Lì, quella spensieratezza più volte invocata da Benedetti è realtà: così come è un fatto il netto rifiuto del business tout court, i prezzi decisamente popolari delle quote d’iscrizione e un ambiente più sano capace di accompagnare la squadra e i suoi atleti.
E il proliferare di queste esperienza da nord a sud, chiarisce con forza anche quanto un altro calcio sia non solo possibile ma già in atto.
Filippo Petrocelli