Nel decennale della scomparsa di Valerio Marchi, a fronte delle innumerevoli iniziative a lui dedicate e, soprattutto, alla stretta attualità del suo lavoro, si può davvero parlare di una «scomparsa» del grande «sociologo di strada» romano?
Polignano a Mare, 22 luglio 2006. Sono passati dieci anni da quel giorno. Quando, dal comune pugliese, la notizia iniziò a girare tra quel pugno di amici più intimi per allargarsi ai tanti che lo avevano conosciuto e, quindi, a quelli, ancora più numerosi, che lo avevano letto o sentito parlare.«È morto Valerio», diceva quella voce maledetta. E si riferiva a Valerio Marchi, l’autore di«Teppa», il sociologo che aveva curato la pubblicazione di«Ultrà», il libraio che aveva aperto e gestito per anni la«Libreria Internazionale» a San Lorenzo, il grande tifoso della Roma, il vecchio skin esperto di ska e di punk, il compagno antifascista, l’autonomo che aveva saputo cogliere e vivere in prima linea la sete di rivolta che albergava negli stadi e che, agli stadi e ai tifosi, era tornato a rivolgersi in un passo della sua famosa«Lettera agli ultrà», per ricordare come«dentro di noi c’è un grumo di rabbia antica, mai sopita, che ci spinge oltre il limitato orizzonte della battaglia e ci conduce ineludibilmente alla guerra di classe».
Per sviscerare il contenuto profondo di questa sola frase non basterebbero decine di pagine né, le implicazioni contenute nel passo, potrebbero essere sciolte da un’unica esperienza di osservazione partecipante o da qualche mese di ricerca sul campo. E intanto, altri spunti, altri contenuti disseminati nei libri di Valerio o affiorati grazie alle interviste concesse, continuano a spiegare e a offrire spunti di riflessione, invitando chi scrive oggi di Marchi e del suo lavoro a evitare accuratamente di declinare al passato la memoria dello skin sanlorenzino per affrontare, piuttosto, la stretta attualità, e di conseguenza il futuro, di cui la sua opera resta formidabile interprete e profetica anticipatrice.
Oggi, infatti, se esiste un luogo in cui il senso dei libri di Valerio Marchi può essere tradito, questo è il territorio della retorica nostalgica, del rimpianto rispetto agli anni d’oro del movimento ultrà e/o dei tempi in cui la lotta di classe e il conflitto metropolitano incendiavano cuori e piazze. Perché se questi sono i temi prediletti da chi «ha gettato l’ancora», leggere Valerio Marchi vuol dire, al contrario, essere dalla parte di chi «ci prova ancora»: a cambiare l’esistente, certamente, ma prima di tutto a riappropriarsi di una lettura del reale che sia in grado di sbriciolare le lenti con cui «il nemico» impone i suoi discorsi, fonda i suoi poteri e legittima saperi addomesticati a usare e consumare categorie utili soltanto a reprimere le insorgenze in costante corso.
Ecco, oggi, con i libri di Valerio sottobraccio, bisogna andare a Fermo e fermarsi nel luogo in cui Amedo Mancini ha prima insultato una donna al grido di «scimmia africana», poi ammazzato il marito accorso in sua difesa. Soltanto la gente della strada, infatti, potrà avere i titoli necessari a contrattaccare prima chi ha osato definire Mancini «ultrà» e non «fascista» e poi, quando i servi del potere già gustano la loro vittoria ammirando gli striscioni con su scritto «siamo tutti Amedeo Mancini» apparsi sui muri marchigiani, continuare a combattere per dire come no, non siamo affatto tutti Amedeo Mancini: il campo dell’onore in cui iscrivere valori degni di essere accettati nella strada come negli stadi, infatti, ingaggia la sfida con avversari meglio armati e, orgogliosamente, rivendica «preferisco essere sconfitto / nudo addosso a un muro / piuttosto che festeggiare la vittoria / protetto da uno scudo»; ci parla, il campo dell’onore in cui nascono gli eroi della strada, di Carlo Giuliani e del suo estintore, da scagliare contro maniche di infami in divisa armati di pistola, e non certo di volgari aggressori di donne; ci parla, il campo dell’onore dove la working class mette in gioco le sue passioni, di una linea dove la parola d’ordine «divisi dai colori, uniti dai valori», è in grado di trasformare le scaramucce tra tifoserie avversarie in orde pronte a sfondare i cordoni dietro cui gli interessi padronali difendono se stessi: questo, e non altro, significa interpretare fino in fondo il rispetto per il proprio territorio e la propria appartenenza: «my class my pride», e dunque «con il razzismo non c’avete fregato / la colpa è del padrone / e non dell’immigrato».
Ancora, pensando a Valerio Marchi, vale la pena aggirarsi furenti tra le macerie dello scontro frontale tra i due treni che viaggiavano sul binario unico della linea Andria – Corato per cogliere un cambiamento epocale. Nel paese che non è stato in grado di interpretare, a livello collettivo e fino in fondo, le implicazioni politiche delle stragi di Ustica e del Cermis, e che dietro gli innumerevoli assassinii di massa provocati periodicamente dalle alluvioni, figlie delle tangenti pagate al dissesto idrogeologico dei nostri territori, si è troppo spesso limitato ad allargare le braccia con cattolica rassegnazione rispetto ai dissesti del «fato»; ebbene nel paese che in innumerevoli occasioni, quelle stesse braccia, le ha allargate anche per archiviare il continuo stillicidio di morti sul lavoro trincerandosi dietro l’ipotesi in fondo tranquillizzante della «disgrazia», questa volta, tra Andria e Corato, non ha più allargato le braccia, ma ha serrato i pugni, ed ha puntato direttamente contro il governo la sua indignazione, parlando apertamente, come è giusto, di «strage di stato».
Tra gli stessi lettori di Valerio Marchi, tra l’altro, soltanto una minoranza sa come sia proprio questo il campo in cui l’originalità del pensiero di questo autore – vale a dire la capacità di scardinare le cornici che impediscono di allargare l’analisi del contesto in cui prendono corpo i fenomeni di natura politica e sociale – abbia avuto modo di forgiarsi ed esercitarsi. Ci riferiamo, in particolare, al volume «La morte in piazza», quando Valerio Marchi, indagando sulla strage di Brescia, fu tra i primi a interpretare correttamente lo stragismo fascista, inserendolo all’interno di quella «strategia della tensione» che tanta parte ha avuto e, in modalità diversa continua ad avere, nella storia contemporanea italiana.
Strategia della tensione, dunque. E «moral panic», come Valerio Marchi spiega egregiamente in «Teppa», raccontando come lungo la storia dell’urbanizzazione e quindi dell’avvento dei mezzi di comunicazione di massa si siano sedimentate, intorno alla categoria del «giovane», status imperativi in grado di isolare, reprimere e condannare anticipatamente qualunque dissenso, sia questo insito nella condizione oggettiva dei soggetti oppure dovuto a una loro esplicita presa di parola. In questo senso, quando si dice «giornalista terrorista» non si recita uno slogan, ma si scatta una fotografia se, guardando ancora ai fatti che si continuano a produrre a Fermo, a margine dell’arresto di Martino Paniconi e Marco Bordoni, accusati di una serie di attentati ai danni di strutture ricollegabili all’accoglienza dei migranti, assistiamo ancora una volta all’uso del termine «ultrà», collegato questa volta alla parola «anarchico».
Paniconi e Bordoni, dunque, sarebbero «ultrà» come Mancini, ma in più anche «anarchici». Il termine «ultrà», in questo contesto come in quello di Mancini, serve a ricondurre i fatti sul terreno della «devianza», impedendo una corretta visuale politica degli stessi. L’«ultrà», in fondo, come spiega Marchi in «Teppa», è uno dei «folk devil» per eccellenza, ma in altre occasioni, con il medesimo intento di spoliticizzare l’interpretazione dei fenomeni negando la conflittualità sociale connaturata agli stessi, altre categorie vengono in soccorso degli osservatori pronti ad addomesticare la realtà. Così, per esempio, quando Davide Cesare «Dax» e Renato Biagetti furono assassinati da fascisti armati di coltello a Milano e a Focene, alle porte di Roma, sui giornali entrambi i fatti vennero descritti come il tragico esito di «risse tra punk». Ma la voce «anarchico», insinuata dai giornalisti a proposito di Paniconi e Bordoni a Fermo, serve anche ad altro: crea un ponte psicologico in grado di trasferire la gravità dei fatti dal mondo dell’estrema destra, a cui tali fatti appartengono, direttamente al campo opposto, quello delle lotte sociali. E non a caso, all’indomani dell’arresto di Paniconi e Bordoni, in occasione dello sgombero, a Roma, dell’occupazione abitativa Point Break, a fronte di alcune bandiere antifasciste e di manifesti relativi ad assemblee pubbliche sul tema «decide la città» rinvenuti nella struttura, come è stata definita tale occupazione?
I giornali, sulla scia della relativa velina della questura, non hanno avuto remora alcuna, e incuranti delle reali idee politiche degli occupanti hanno scritto «anarchici», creando così un legame in grado di dare l’impressione che i bombaroli di Fermo e gli occupanti di Roma fossero un qualcosa di simile… poi, in virtù di qualche grammo d’erba, hanno completato l’opera descrivendo Point Break come «una centrale di spaccio» e i suoi occupanti come «drogati», altra classica categoria di «folk devil» buona per tutte le stagioni e sempre utile quando si vogliono negare le istanze che parlano, per esempio, di diritto alla casa e di lotta alla precarietà, affossandole dentro un discorso di ordine pubblico e di criminalità comune.
Simili ragionamenti, ispirati da una lettura dei libri di Valerio Marchi vicina all’esperienza quotidiana, servono a spiegare come questo autore, negli ultimi anni, sia stato più presente che mai in quella scena che, tra antagonismo politico e organizzazione controculturale, continua a interrogarsi sul come, vivendo e lottando all’interno delle periferie, sia possibile ribaltare il «mondo di sopra». Dal 2014, anno di riedizione per i tipi della Red Star Press in collaborazione con Hellnation di Roberto Gagliardi del volume «Teppa. Storie del conflitto giovanile dal Rinascimento ai giorni nostri», da Vetralla (Cantina del Gojo) a Napoli (Mensa Occupata), da Pisa (Comitati di Quartiere) a Taranto (Taranto Antifascista), da Bari (Ex Caserma Liberata) a Lecce (No Racism Cup), da Cosenza (CS Rialzo e Sparrow) a Roma (CS Macchia Rossa, Esc, VIII Zona e Ex51) e Bologna (Gateway e A Skeggia), sono state innumerevoli le iniziative dedicate a Valerio Marchi. E, entrando nel decennale della scomparsa, mentre il CSOA Scurìa di Foggia (oggi purtroppo sgomberato) intitolava a Valerio Marchi la sala del suo infopoint, «Il derby del bambino morto» è stato ripubblicato a cura di Wu Ming nella collana Quinto Tipo delle Edizioni Alegre. Così, se per Red Star Press, «La morte in piazza» ha conosciuto una nuova edizione con la collaborazione di Brescia Antifascista e la ristampa di «Ultrà» ha visto la luce per l’etichetta gemella Hellnation Libri, il CUA di Bologna ha dedicato a Valerio Marchi uno dei partecipati dibattiti ospitati dalla rassegna «Parole nel Pallone» e il FOA Boccaccio di Monza ha organizzato nel segno dello stesso Valerio Marchi la rassegna «I bravi ragazzi vanno in paradiso, quelli cattivi dappertutto». In vista dell’autunno, inoltre, si annuncia sia la pubblicazione di una monografia completamente dedicata a Valerio che la riedizione delle sue altre opere per Red Star Press insieme alla ripresa, in quel di San Lorenzo e a cura di Sportpopolare.it con la collaborazione del Cinema Palazzo e dello storico «rude pub» Sally Brown, del Festival delle Controculture, da sempre pensato in suo onore. Un florilegio di libri, di iniziative, di prese di parola che trovano la loro ragione nell’urgenza con cui Valerio Marchi seppe trovare per strada, nelle periferie, tra la teppa, insieme agli skin e negli stadi di calcio, un’opportunità prima che un «problema» – ma anche un filo rosso in grado di guardare avanti e persino di negare la morte, affermando come Valerio sia sempre stato qui perché, in realtà, non è mai andato via.
Cristiano Armati