Oltre il calciomercato e le wags – l’odioso nomignolo delle fidanzate dei calciatori con tanto di profili Instagram e trend topic su Twitter – la nuova notizia sportiva dell’estate è l’esclusione dalle Olimpiadi di Rio della squadra russa di atletica.
La decisione che sembra ormai definitiva, è stata preparata con cura nei mesi scorsi anche sui mezzi d’informazione. Molta attenzione è stata dedicata alla bolla del doping in Russia con titoli sensazionalistici e sentenze mai pronunciate, tutto strumentale a sbattere il mostro in prima pagina.
Lo scandalo è finito per somigliare a un noir con agenti segreti coinvolti, organizzazioni parastatali e interessi occulti.
Tutti comincia all’inizio del novembre 2015: un cospicuo faldone della Wada (World antidoping agency) accusa la Russia di aver costruito un sistema di doping di stato.
Nello specifico il presidente della Wada parla del «più esteso fenomeno di doping e corruzione della storia dello sport moderno», mentre più volte si fa riferimento a «una sistematica cultura del doping nello sport russo».
Nel mirino finisce tutto il sistema sportivo della Federazione ma è soprattutto l’atletica leggera – che negli ultimi anni ha registrato una forte crescita a livello di squadra con 8 ori a Londra, 4 argenti, 5 bronzi, seconda solo agli Stati Uniti – a trovare la gogna.
Sul banco degli imputati finiscono due pesci grossi: Vladimir Putin e il ministro dello sport della Federazione russa Vitaly Mutko, suo sodale di Russia Unita, il partito-coalizione del presidente.
L’accusa della Wada è molto pesante: in Russia il doping sarebbe non solo molto diffuso, ma coperto e foraggiato dallo stato che proprio tramite il ministero dello sport, del turismo e delle politiche giovanili eserciterebbe un controllo ferreo persino sull’agenzia antidoping del paese, pilotandone i risultati.
E qui compare un altro imputato di rilievo citato molte volte all’interno del rapporto, Grigory Rodchenko, fino al 2015 direttore del laboratorio antidoping di Mosca collegato con la federazione.
A tirarlo in ballo è la gola profonda di questa vicenda: Vitaly Stepanov, funzionario dell’antidoping russo che ha denunciato il sistema russo alla Wada, facendo scattare l’indagine con tanto di dichiarazioni e pentimento.
Accuse molto gravi piovono contro la Rusada (l’agenzia antidoping) e l’Araf (la federazione dell’atletica leggera russa), ma l’obiettivo sembra essere ancora più in alto, proprio nel vertice del sistema sportivo-statale russo.
Tuttavia alcune cose non tornano: se sul banco degli imputati c’è la federazione dell’atletica, nel rapporto trovano grande spazio le Olimpiadi invernali di Sochi, mostrate come la pietra dello scandalo per il loro intreccio di affari, connivenze e sabotaggi.
Nel rapporto si sostiene che uomini del Fsb, il servizio segreto russo, siano intervenuti direttamente a Sochi per modificare dei campioni di atleti risultati positivi. Eppure oltre i rumors, le prove scarseggiano.
Potrebbe sembrare un dettaglio ma in quell’Olimpiade invernale l’atletica non gareggiava, né poteva competere, essendo una specialità da Olimpiade “estiva”.
Poi a voler curiosare un po’ si scopre che la Wada è una fondazione a partecipazione pubblica-privata nata nel 1999 per coordinare le politiche anti dopaggio ma rimane un organismo privato. Giuridicamente è appunto una fondazione (ente costituito da un patrimonio preordinato al perseguimento di un determinato scopo) sottoposta alle leggi svizzere. Insomma la Wada non ha né il potere, né la struttura giuridica per estromettere nessuno e non è un organismo “statale” e neutrale, ma appunto una fondazione che si occupa di doping.
Nessuno vuole criminalizzare o sminuire il lavoro della Wada, ma sembra opportuno almeno spiegarne intenti, obiettivi e competenze. È infatti poi la Iaaf (Federazione internazionale di atletica) ad aver vietato la partecipazione alla Russia. E così dopo le ultime decisioni del Cio (Comitato olimpico internazionale), sarà per ogni disciplina: le singole federazioni internazionali decideranno se ammettere o squalificare la Russia, non ci sarà un’esclusione a priori.
Il doping è un problema per lo sport, va combattuto con severità ma non è nato e non è diffuso solo in Russia. Quello che invece sembra andare in scena è il vecchio adagio dei «due pesi e due misure».
È l’ennesimo scandalo in salsa putiniana con tanto di contorni da film di James Bond e omertà sugli altri paesi? Un gioco sporco che dovrebbe far gridare all’uso politico della questione doping?
Gli atleti russi esclusi sono stati spesso controllati da agenzie anti-doping straniere senza però risultare positivi, ma l’esclusione e la punizione sono diventate collettive. La colpa è quella di fare sport in Russia dove esiste il doping come in ogni altro stato?
D’accordo, nel 1988 a Seul quando Ben Johnson vinse l’oro nei 100 metri, prima di essere eliminato per doping, la Wada ancora non esisteva e non poteva proporre la squalifica per tutto la squadra canadese. Non si ricordano nemmeno barricate e alzate di scudi per escludere la squadra statunitense quando Justin Gatlin, Tim Montgomery o Marion Jones – importanti atleti olimpici statunitensi, vincitori di diverse medaglie, titoli e record mondiali – sono stati condannati per doping.
Ciò che rende perplessi è che in alcuni casi il doping diventi una questione individuale, mentre in altri assume dimensioni statali, o meglio etniche.
La Russia ha una grande tradizione sportiva alle spalle e in un certo senso ciò è uno dei maggiori lasciti dell’epoca sovietica: su quel modello sono state impostate le odierne strutture sportive.
Il ruolo dello stato è sicuramente maggiore rispetto a quello di un qualsiasi altro paese: l’impegno diretto in investimenti, infrastrutture e personale specializzato è in larga parte “pubblico” con poco spazio ai privati.
Soprattutto le eccellenze degli sport minori (con questo termine in realtà si intendono tutte le specialità tranne il calcio), sono gestite direttamente dallo stato. Non a caso molti sportivi sono membri delle forze armate, così come accade in Italia per lo sport dilettantistico, senza destare particolari malumori.
Proprio sulla base dell’impianto sovietico di orientamento allo sport, è presente un intero sistema che fa progredire lo sportivo anche dopo la sua carriera. In questo senso molti ex-atleti diventano a loro volta allenatori, funzionari e anche il corrispettivo della nostra università di scienze motorie è una realtà ben strutturata, dove lo stato rimane l’attore principale.
Insomma esiste una diversità strutturale a livello di concezione sportiva, ma questa in realtà non sembra essere una colpa.
Oltre il sensazionalismo della notizia dell’esclusione dalle Olimpiadi sorge però spontanea una riflessione: a Rio si liberano circa venti medaglie da spartire fra gli altri paesi. Crediamo con tanto di gioia del Comitato olimpico internazionale.
Filippo Petrocelli