Non avendo molta dimestichezza col mondo del football americano, non ci è dato sapere se durante l'esecuzione dell'inno statunitense (usanza che oltreoceano introduce tutti gli eventi sportivi), prima del match di pre-season tra i San Francisco 49ers e i Green Bay Packers, Colin Kaepernick, quarterback dei 49ers fosse consapevole che non alzandosi insieme ai compagni per cantarlo in segno di solidarietà nei confronti della gente di colore e delle brutalità quotidiane che essa subisce dalla polizia, non solo avrebbe sollevato un vespaio di polemiche, ma avrebbe anche risvegliato dal suo torpore dorato il mondo dello sport professionistico americano.
Il fatto che, a distanza di pochi giorni, l'atleta abbia ripetuto il gesto, questa volta a San Diego, e che venisse imitato sia dal suo compagno di squadra Eric Reid (ma, in contemporanea, anche dal cornerback dei Seattle Seahawks, impegnato ad Oakland), ha fatto deflagrare la situazione senza possibilità di ritorno, a maggior ragione perché in questa seconda occasione ciò è avvenuto mentre la squadra di San Diego onorava con l'esecuzione della canzone “The star Spangled Banner” cantato da un ufficiale di marina e 240 soldati dei corpi militari. Il risultato concreto è stata una polarizzazione del dibattito intorno al gesto, trasformando lo sport più amato oltreoceano in una rappresentazione delle varie fratture all'interno della società statunitense proprio alla vigilia di una delle elezioni più controverse degli ultimi tempi. In un'intervista Kaepernick ha ribadito le sue motivazioni: «Non starò in piedi per dimostrare il mio orgoglio per la bandiera di un paese che opprime i neri e le minoranze etniche. Per me è più importante del football, e sarebbe egoista guardare dall’altra parte. Ci sono cadaveri per le strade, e persone che la fanno franca» e che comunque proseguirà con le sue proteste nel corso della stagione regolare alle porte e che intende donare un milione di dollari a organizzazioni non specificate per aiutare chi più soffre di diseguaglianze e maltrattamenti.
Le reazioni, dunque, non si sono fatte attendere e hanno investito tutti i livelli della società statunitense e del suo discorso pubblico: il sempre caustico Donald Trump ha invitato Kaepernick a cercarsi un altro paese in cui vivere, mentre Obama, direttamente dal G-20 in Cina, ha dato l'ennesimo sfoggio di cerchiobottismo definendo da un lato la protesta del giovane apprezzabile, legittima e sincera perché alimenta il processo democratico interno alla nazione, ma dall'altro ha messo in guardia contro un tipo di proteste che possono essere disordinate, capaci di creare disagio e malumore nella comunità militare, rimarcando il valore “sacro” della bandiera nazionale e dell'inno. Eppure, proprio nella comunità militare si è levata una voce di incoraggiamento al quarterback: una lettera aperta firmata da 35 veterani di guerra che vedono in queste modalità la migliore forma di apprezzamento per quel Primo Emendamento per cui loro sostengono di avere combattuto e hanno addirittura creato un hashtag sui social media per sostenerlo, #VeteransforKaepernick.
Ma forse quello che è più interessante è osservare come si sia evoluto il dibattito all'interno del mondo sportivo, perché se noi abbiamo sia Tavecchio che i vari Cruciani o Telese è difficile supporre che negli USA siano messi tanto meglio. In primis, a essere spaccato è proprio il mondo dei tifosi: se da un lato il club fa sapere che le vendite delle maglie di Kaepernick sono in vistoso aumento, dall'altro c'è da registrare il rogo di alcune delle stesse maglie; alcuni commentatori hanno addirittura sostenuto che questa sia una trovata pubblicitaria visto che dopo aver condotto la sua squadra al Superbowl del 2013, la carriera di Kaepernick sembrerebbe avviatasi verso il declino, altri invece lo ritengono inadatto a perseguire questo tipo di azioni in quanto personaggio benestante e mediatico, quasi a voler dire “va bene che qualcuno protesti, purché non sia famoso da ottenere clamore mediatico, in modo da sommergere la notizia il prima possibile”. Addirittura c'è chi (Il commentatore Rodney Harrison) ha detto che era “troppo poco nero” per poter protestare... Inoltre c'è chi addirittura suggerisce malignamente che questa possa essere nient'altro che una scusa per farsi “tagliare” dal proprio team; ma a sconfessare quest'ultima posizione è giunta una missiva ufficiale dei 49ers che reputano lecito il principio del proprio tesserato di poter scegliere come celebrare l'inno; dichiarazione a cui fa eco, forse in maniera un po' più pilatesca, la NFL, la principale lega di football americano, che sostiene, asetticamente, che non c'è nessun obbligo da parte dei giocatori di alzarsi in piedi e cantare l'inno, quindi non ci saranno sanzioni, come pure qualcuno aveva chiesto. Tuttavia il comunicato sembra risentire delle frizioni interne alla lega generate da questa situazione: sono molti infatti (qualche fonte anonima ha addirittura riferito che si tratterebbe del 90%) i dirigenti delle squadre della lega a considerare il giocatore alla stregua di un traditore, un antiamericano e, pur mantenendo per scelta l'anonimato, “Bleacher report” ha raccolto i commenti dei dirigenti che si sono dichiarati pronti a giurare che piuttosto che tesserarlo sarebbero pronti a dimettersi e che all'interno del loro ambiente un tale livello di antipatia nei confronti di un atleta non si aveva dai tempi di Rae Curruth, arrestato con l'accuso di aver ucciso la propria fidanzata incinta. Probabilmente su questo dato incide la particolare natura sociale del football americano in cui di fronte al 68% dei giocatori di colore vi corrispondono solo il 16% degli allenatori e lo 0% dei proprietari dei club.
Fortunatamente, alcune delle personalità sportive più importanti hanno sposato la sua causa: dall'Hall of Famer Jim Brown, anch'egli quando giocava per Cleveland impegnato nella battaglia per i diritti degli afro-americani, che ha auspicato che altri colleghi seguano quest'esempio, a Megan Repinoe, centrocampista della squadra di calcio femminile dei Seattle Reign FC e attiva contro le discriminazioni nei confronti dei LGBTQ, passando per una leggenda vivente del basket come Kareem Abdul-Jabar che dalle colonne del Washington Post invitava a non indignarsi per Kaepernick, ma per quello che lo stesso aveva sollevato. Infine, dulcis in fundo, non potevano tacere i destinatari di questa protesta, i diretti interessati, vale a dire le forze dell'ordine che tramite il sindacato dei poliziotti di Santa Clara, la città che ospita le partite casalinghe dei 49ers, ha fortemente stigmatizzato il comportamento del giovane afro-americano, parlando di insulto ai propri iscritti e minacciando lo sciopero durante le partite di S. Francisco, perché “i nostri membri hanno il diritto di operare in un ambiente senza essere insultati da un vostro dipendente”, citando i 70 poliziotti che fanno “servizio volontario di sicurezza” durante le partite (che poi tanto volontario non è visto che vengono pagati e anche bene...) e rincarando la dose mostrando foto in cui l'atleta, durante gli allenamenti, indossa dei calzini in cui figurano dei maiali col cappello da poliziotto. A quanto sembra, dai guanti neri dei successivamente ostracizzati Tommy Smith e John Carlos alle Olimpiadi del '68 a Città del Messico ai calzini coi maiali di Kaepernick l'unica differenza sostanziale sembra essere il capo di vestiario, ma non la situazione di discriminazione che si vive nelle strade dei ghetti americani sulla pelle dei neri, quella stessa discriminazione che in tanti compendi della guerra fredda, viene un po' troppo semplicisticamente (faziosamente?...) omessa, per soffermarsi sulle mancanze dell'altro campo, ma che ritorna ciclicamente in maniera perentoria alla ribalta. Non resta che sperare che dopo il periodo degli atleti alla Micheal Jordan per cui “Anche i repubblicani comprano tante scarpe da tennis”, a simboleggiare la sua estraneità a ogni rivendicazione sociale, subentri una nuova epoca di presa di coscienza anche degli atleti più rappresentativi partendo proprio da esempi come quelli di Kaepernick.
Giuseppe Ranieri