Per avvicinarci al festival dell'8-9 ottobre in ricordo di Valerio Marchi, pubblichiamo in questi giorni alcune sbobinature di interventi fatti in suo ricordo e nel nome delle controculture...continuiamo con Riccardo Pedrini.
PEDRINI: “Io volevo partire dall'inizio, da come e quando il punk-rock arrivò in Italia (allora si chiamava così...). La mia attività di scrittore e musicista è connessa in diversi ambiti a un gruppo, i Nabat, che sono stati importanti per lo sviluppo dell'OI! italiano, sono sempre stati molto legati agli skinhead come sottocultura, ma nascono in una temperie culturale in cui ancora gli skinhead non esistevano in Italia e nascono; all'origine anche i Nabat erano un gruppo puramente di Punk-rock. Steno aveva i capelli a spina, un giubbotto di pelle ecc. (Philopat se lo ricorda...). È interessante cercare di capire il contesto quotidiano in cui nasce il punk in Italia; e la prima cosa da dire è che il mondo da cui nasce il punk italiano è lontanissimo da quello dei giorni nostri. La fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80 sono davvero un altro pianeta da tantissimi punti di vista: innanzi tutto come situazione politica che c'era ancora. Immaginate che a Bologna, il partito tradizionale della classe operaia che era il PCI era sopra il 50% e la sua opposizione era un'opposizione di sinistra. Un paese completamente diverso da quello in cui viviamo adesso.
Quando iniziammo a suonare era l'ultima cosa che mi sarei mai aspettato, probabilmente è questa: finire a parlare dopo più di 30 anni in un contesto in cui molte delle cose che abbiamo detto allora hanno sedimentato e sono diventate senso comune per una parte importante dei ragazzi di strada italiani. Allora non ce l'aspettavamo: pensavamo non solo che il punk durasse due mesi, ma che il mondo durasse due anni dopo di noi (massimo fino al 1984...). Una prospettiva più lunga non c'era. Era un mondo in cui per comprare una chitarra decenti dovevi impegnare la casa, perché una chitarra decente costava l'equivalente di otto stipendi di operaio; era un mondo in cui non c'erano luoghi di ritrovo, non c'erano proprio; era un mondo in cui se giravi col chiodo i compagni ti correvano dietro e tu... Era un mondo molto differente da quello di adesso che stimolava, che induceva delle prese di posizioni radicali e la radicalità non è mai mancata nel punk italiano, sin dagli inizi da quando ancora ci chiamavamo, e noi ci autochiamavamo Punk-rock. Bologna per chi conosce la storia del punk italiano è abbastanza nota per questa faccenda della dialettica tutta interna, tra un'area che potremmo definire pacifista e che si rifaceva ad una band che erano i Raf Punk e che in Inghilterra si ispirava ai Crass ed un'area tra virgolette nichilista o stradaiola che faceva riferimento ai Nabat, a Steno ed alla band di cui faccio parte da cui poi nacquero gli skinhead. In realtà c'era una componente, se vogliamo di ceto intellettuale, perché i luoghi erano notoriamente pochi e noi fisicamente tutti i giorni vedevamo i nostri supposti avversari (anche se in realtà eravamo amicissmi): i Nabat hanno suonato al Virus, più di una volta, anche i Raf Punk; quindi in realtà quello che è successo dopo con la divaricazione di scena, all'epoca era impensabile, era semplicemente una situazione che ti portava necessariamente a guardarti in faccia ed a cercare di fare qualcosa coi tuoi mezzi perché intorno non c'era davvero nulla.
Io credo che l'arma più importante del punk italiano e mondiale sia stata la fotocopiatrice. Molto più dell'amplificazione e delle chitarre buone, che all'epoca erano scarse, molto più dell'abilità tecnica dei musicisti che all'epoca non c'era. La cosa che ha fatto il punk italiano secondo me è stato il ciclostile, per chi all'epoca aveva accesso a qualche sede politica e la fotocopiatrice, sono state le fanzine (su questa cosa vorrei un parere magari di Marco così se interagiamo esce una cosa divertente). Qual è la prima fanzine punk che ti ricordi?”
PHILOPAT: “Le fanzine sono state importanti, perché per la prima volta si potevano fare 10 copie e questa è stata la grande libertà di noi punk. Una delle prime che mi ricordo è “Attack” dei RAF Punk, perché aveva una grafica molto particolare: c'erano delle scritte dappertutto e dovevi impegnarti prima a leggerle per capirle, quella è stata la cosa più importante delle fanzine, perché poi ha aperto i punk a un utilizzo più disinvolto della tecnologia, quando poi sarebbero arrivati i computer.”
PE: “Questa fase di laboratorio avveniva in un periodo storico che solo i più anziani di noi hanno conosciuto. Era un periodo in cui la musica italiana aveva due versanti: uno era quel tipo di canzonetta '70's che Fabio Fazio ha cercato qualche anno fa con una serie di programmi tv inutili e nostalgici, oppure il cantautorato politico. Per noi nessuna di queste poche aveva senso; le cose che istintivamente lo avevano erano altre. Io iniziai a diventare un fan del rock'n roll e del punk quando vidi la prima copertina del primo disco dei Ramones: era la fine del '76. Era uscito prima, ma a Bologna arrivò dopo, perché da noi i i dischi arrivavano dopo, non uscivano in contemporanea mondiale; qualcuno doveva avere l'intuizione di andare a richiederlo. L'immagine di quei ragazzi che erano in fondo miei coetanei; quello aveva senso per me! Erano quattro teppisti appoggiati ad un muro ed era esattamente come mi sentivo io, come probabilmente si sentivano la maggior parte di quelli che poi hanno finito per far parte della scena punk italiana; in quel momento ci sentivamo così, eravamo dei reietti. Eravamo troppo giovani per aver partecipato a qualche esperienza politica seria e troppo vecchi per cominciare ad appassionarsi alla disco-music o a merda del genere.
Era davvero un territorio di confine, che abbiamo cercato di esplorare coi mezzi che avevamo che erano limitati. Ricordo che a Bologna, gli unici, come situazione politica, che hanno cercato di darci una sponda politica a noi poveretti furono i medi della Federazione anarchica: ci fu il Berneri che era la sede degli anarchici, quelli della FAI, i più dogmatici da un certo punto di vista, però furono gli unici che ci misero a disposizione la loro sede il loro ciclostile ecc... Ed è lì che nacque “Attack”. Io quando nacque quella fanzine all'epoca fui molto critico con Giampi e con gli altri della RAF perché non si capiva un cazzo. Loro avevano tutta quest'ottica, volendo avanguardistica, per cui il mezzo ed il messaggio dovevano essere ideologicamente e stilisticamente molto vicini, per cui se i contenuti che tu esprimevi erano molto avanzati da un punto di vista politico automaticamente non si capiva un cazzo quando leggevi. (Risata...) E questo è esattamente quello contro cui Steno e i Nabat hanno iniziato a reagire poi... o no?”
PH: “Io mi ritrovo sulla sponda opposta in questo caso, però bisogna riconoscere che tutta l'attività dei Raf Punk non erano soltanto le teorie portate avanti su “Attack” che venivano dopo; prima veniva l'apparato grafico o i volantini e gli slogan che distribuivano che erano sostanzialmente sintetici ed entrammo subito in sintonia. Io mi ritrovai molto di più da quella parte perché come individuo ho sempre avuto un atteggiamento dialettico: sulla questione della violenza, ad esempio io vengo da un quartiere popolare di Milano e siccome ero magro e non sapevo fare a botte ho capito sin da piccolo che avrei dovuto risolvere i conflitti con la dialettica. Quindi in qualche modo nei Raf Punk mi identificavo di più che con i Nabat che erano una cosa più fisica, però a mio parere, soprattutto alla luce del fatto che siamo qui a ricordare Valerio, le cose si sposavano e si sposano perfettamente e tutto il lavoro di Valerio ce lo dimostra: quando un ragazzo di strada comincia a fare un percorso di responsabilizzazione, di crescita, ma soprattutto di consapevolezza è naturalmente impegnato a stare comunque vicino a quella che era la sua origine che è in ogni caso di strada. In ogni caso non si può andare avanti, che se lo viene a sapere Elena Velena che è di Roma si incazza (risata generale...).”